venerdì 26 febbraio 2016

LA CAMPAGNA FONDAMENTALISTA CONTRO I COMPITI A CASA

Periodicamente torna alla ribalta la protesta contro i compiti a casa. Ma è l’ex preside Maurizio Parodi a tener vivo il problema, con una campagna che in quindici mesi è arrivata a diecimila adesioni (non così tante in relazione a una platea di parecchi milioni di persone), quasi tutti genitori. Solo duecento gli insegnanti su 780.000, secondo quanto  riferisce oggi “La Repubblica. Non stupisce questa solenne bocciatura da parte di chi è chiamato in causa. Non si tratta infatti di una critica circostanziata ai casi in cui gli alunni vengono sovraccaricati di esercizi e di pagine di manuale, ma della richiesta di una pura e semplice abolizione dei compiti nella scuola dell’obbligo: si salverebbero dunque solo gli ultimi tre anni delle superiori. E per di più colpisce la virulenza del linguaggio con cui vengono enumerate le motivazioni dell’iniziativa. I compiti sono inutili, perché sono destinate presto a svanire “le nozioni ingurgitate attraverso lo studio domestico per essere rigettate a comando” (sic!); “sono dannosi perché suscitano “odio e repulsione per la cultura”; sono discriminanti in quanto “avvantaggiano gli studenti avvantaggiati, quelli che hanno genitori premurosi e istruiti”; prevaricano il diritto al riposo e allo svago. Sono impropri, limitanti, stressanti, malsani… Come si possa solo pensare di rivolgersi utilmente ai docenti italiani trattandoli come una legione di aguzzini è difficile da spiegare. Ma anche se si potesse fare la tara a questa astiosa requisitoria, resterebbe il fatto che qui si propone di eliminare una delle basi della cultura occidentale: lo studio. Né si può pensare che dopo dieci anni di scuola in cui a casa non si è toccato un libro, né fatto un esercizio si arrivi al triennio delle superiori bell’e capaci di studiare. Così come non è possibile suonare uno strumento senza anni e anni di faticose e ripetitive esercitazioni, né praticare uno sport a un buon livello senza un duro lavoro per acquisire i fondamentali e tanto meno diventare un professionista in qualsiasi campo senza “ingurgitare” una gran quantità di conoscenze; e non per “rigettarle a comando”, ma per farne la materia prima della propria cultura.
La verità è che questo approccio fondamentalista a un problema che esiste, ma non è la regola, si collega a una diffusa concezione della scuola ideale, che si vorrebbe basata solo su attività divertenti e sul gioco, anziché soprattutto  sullo studio sistematico e rigoroso (in misura e modalità adatte alle diverse età); e che con motivazioni analoghe a quelle di questa petizione vorrebbe eliminare, dopo quasi tutti gli esami, le bocciature e i voti. Una concezione che già molti anni fa Lucio Lombardo Radice, che pure era sostenitore dell’innovazione didattica e in particolare delle concezioni attive, la criticava senza mezzi termini per così concludere: «Vogliamo sottolineare che un momento non eliminabile, per un solido sviluppo intellettuale in una direzione quale che sia, per l’acquisizione di un permanente patrimonio culturale comunque configurato, è lo studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere».
Giorgio Ragazzini
La petizione: http://chn.ge/1TEfhmc

mercoledì 17 febbraio 2016

UN DOCENTE SCRIVE A GALIMBERTI IN DIFESA DELL'ISTRUZIONE PROFESSIONALE

Non siamo proprio tifosi della legge 107 nel suo complesso, ma negare che sia un notevole passo avanti l'attenzione al rapporto tra scuola e lavoro sarebbe paradossale. Abbiamo dedicato decine di articoli su questo blog alla formazione professionale e preso numerose iniziative con lo scopo di valorizzarla; e lo ricorda anche il post precedente. Non si tratta certo di sminuire il valore della cultura “disinteressata”, cioè non tesa a un'immediata applicazione, ma di difendere il valore culturale del lavoro e della formazione al lavoro. Anche chi da ragazzo ha fatto esperienza dei famosi “lavoretti” estivi può senz'altro testimoniare quanto alla soddisfazione per i primi guadagni si aggiungesse la sensazione di una crescita sul piano umano. Va poi sottolineata ancora una volta la funzione motivazionale nei confronti delle materie “culturali” che per molti ragazzi rivestono le discipline professionalizzanti svolte con soddisfazione nei laboratori. Lo testimonia la lettera che pubblichiamo, indirizzata da un docente di lettere in un istituto professionale a Umberto Galimberti, filosofo, psicologo e collaboratore de “La Repubblica” e del suo supplemento “D – La Repubblica delle donne”. Il quale in questo caso dà l'impressione di trattare un problema che conosce in modo superficiale.

Egregio professor Galimberti,
leggo ogni settimana la sua pagina sul supplemento del sabato di Repubblica, trovandovi ogni volta occasioni stimolanti e originali per riflettere sulla nostra vita e sul nostro tempo. Sono rimasto perciò molto deluso dalla monoliticità della sua risposta al lettore Giuseppe Cappello (sabato 13 febbraio) in merito all'alternanza scuola-lavoro.
Come non essere d'accordo sul fatto che la scuola abbia il compito primario di formare lo spessore culturale e il senso critico degli studenti? Ma perché vedere una contraddizione fra l'obbiettivo di preparare al lavoro e quello di formare l'uomo con l'attenzione rivolta alla sua intelligenza? Non è intelligenza anche quella rivolta al fare? Lo sviluppo del senso critico non passa anche attraverso la formazione accurata a una professione, purché vissuta con intelligenza e passione, con la consapevolezza delle sue implicazioni etiche e sociali, comprendendo che lavorare bene è un modo per far star bene gli altri, anzi per star bene con gli altri, che forse è il senso ultimo della vita sociale?
Entro nel merito in base alla mia esperienza personale. Insegno da dieci anni, con entusiasmo e passione, poco scalfiti dalla scarsa considerazione sociale della professione di insegnante, Italiano e Storia in un istituto alberghiero di Firenze. Molti miei colleghi penserebbero al mio come a un ruolo di serie B, in una scuola poco interessata alle discipline umanistiche e rivolta a ragazzi “non portati per lo studio” (lo metto fra virgolette perché è la dizione ancora usata in sciagurati documenti di orientamento da insegnanti delle medie). Le assicuro che non è affatto così. È chiaro che ogni anno faccio un numero minore di canti della Commedia rispetto ai miei colleghi del liceo, che salto autori (Tasso e Carducci, per esempio) che in altri tipi di scuole si considera necessario studiare. Però accompagno, con la specificità delle mie conoscenze e, soprattutto, con amore per il sapere umanistico, percorsi di crescita personale, professionale e sociale di ragazzi talvolta appassionati, talvolta distratti, che magari hanno ricevuto più che altro bastonate da famiglia e scuola, ma che trovano nella passione per le professioni di cuoco o di maître un senso per la loro vita e la base della “capacità di avvertire, anche senza mediazioni intellettuali, la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto” (cito lei). Per tutti è così? Certo che no. Alcuni li perdiamo per strada, altri li troviamo incerti e così li lasciamo, ma mi creda, non licenziamo servi pronti solo a ubbidire e a subire il dominio del mondo della tecnica. O vogliamo pensare, con nostalgia gentiliana fuori tempo, che la scuola possa formare cittadini consapevoli solo nel liceo classico, quindi rivolgendosi inevitabilmente a una ristretta élite?
Mio figlio ha fatto anni fa il liceo classico. Oggi cercherei di scoraggiarlo: ha studiato latino e greco, nonché filosofia, materie che non studiano specificatamente i miei studenti, anche se la filosofia entra, inevitabilmente, nelle mie lezioni. Ebbene, almeno dalle prime due, non ha ricavato affatto solidità culturale e senso critico, ma le ha vissute come un necessario pedaggio per il percorso di studi da lui scelto, senza nemmeno avvicinarsi al loro impiego per l'apprezzamento diretto e profondo dei classici. Basti dire che la sua insegnante di greco e latino si trovò un 24 aprile di molti anni fa a dare compiti per il giorno dopo, cadendo dal pero quando gli studenti le fecero notare che sarebbe stato festa.
Potrei continuare a lungo, ma non voglio rubarle altro tempo. Ci tenevo però a rappresentarle le considerazioni in me suscitate dal suo articolo, dato che la considero uno degli intellettuali italiani più stimolanti e liberi in circolazione.
Se non oso troppo, mi lasci dire che sarebbe un piacere continuare la discussione. Perché non nella mia scuola dove toccherebbe con mano (e sarebbe un onore farle assaggiare a tavola) quello che ho maldestramente cercato di spiegare?
Con profonda stima e molti ringraziamenti per l'attenzione.
Andrea Burzi

martedì 16 febbraio 2016

LA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN TOSCANA

Con il recente convegno su La formazione professionale che cambia, organizzato dall'Irpet nella sede del governo regionale, si può dire conclusa una svolta radicale della politica scolastica di competenza della Regione, con un programma di piena valorizzazione della formazione professionale anche ai fini dell’adempimento dell’obbligo scolastico. Dopo aver progressivamente abbandonato il costoso e improduttivo “modello toscano”, basato sulla convinzione che si dovesse limitare al massimo, cioè solo per i ragazzi con gravi difficoltà scolastiche, un parziale accesso alla formazione professionale in quanto percorso ghettizzante e anticulturale, la Regione punta ora le sue fiches esclusivamente sui cosiddetti trienni complementari. A questo si accompagna un’ulteriore apertura al mondo delle imprese e del lavoro, da attuarsi anche attraverso il ruolo delle agenzie formative, che almeno negli intenti saranno finalmente sottoposte a un serio controllo del loro operato.
Come dirigente scolastica, l’assessore all’istruzione Cristina Grieco fu firmataria del nostro appello di sei anni fa proprio a favore di un triennio di questo genere ed è dunque una coerente sostenitrice di questa linea, che trova ora una sua concreta realizzazione. Non ci dovrebbero essere quindi ostacoli né resistenze su questa strada. Si può puntare ora con maggiore ottimismo alla riduzione dell’insuccesso e dell’abbandono scolastico, che anche in Toscana va ben oltre le stime ufficiali del 17%. È poi da sottolineare in maniera positiva anche il favore per il nuovo corso da parte del presidente della Regione, che riconosce ora apertamente che anche il lavoro manuale rappresenta un’opportunità formativa e non una discriminazione per molti ragazzi le cui intelligenze ben si confanno ad un sapere pratico, che è sbagliato forzare in percorsi scolastici “licealizzati”, per loro  frustranti e ultraselettivi. È giusto infine ringraziare l'Ente Cassa di Risparmio di Firenze che in tutti questi anni ha finanziato con coraggio e convinzione progetti e percorsi che andavano nella giusta direzione.
Purtroppo in molte altre regioni italiane il problema è lungi dall'essere affrontato, e in certe realtà il tema della formazione professionale è legato essenzialmente al malaffare o nella migliore delle ipotesi allo sperpero di denaro pubblico. Auspichiamo che in queste realtà sia lo Stato a intervenire e a garantire un’efficace azione formativa per ragazzi abbandonati al proprio destino che, in moltissimi casi, è quello di diventare Neet, cioè persone non impegnate né nello studio,  nel lavoro, né nella formazione: in parole povere, degli emarginati, ora e in futuro, privati perciò del pieno diritto di diventare veri cittadini, come auspicato da molti articoli della nostra Costituzione, a volte retoricamente esaltata da intellettuali e politici che si accontentano dei sogni e non sanno fare i conti con la realtà.

Valerio Vagnoli

mercoledì 3 febbraio 2016

IL 5 IN CONDOTTA SENZA CONSEGUENZE DELL’ONOREVOLE SANTERINI

 “Basta con il voto in condotta, va abolito”. A lanciare la proposta, destinata ad aprire un nuovo dibattito nel mondo della scuola, è l’onorevole Milena Santerini, ex “Montiana”, ora del gruppo “Democrazia solidale”. Da settimane la deputata sta lavorando ad un disegno di legge che ben presto sarà depositato alla Camera. L’obiettivo della Santerini è chiaro: contrastare il più possibile la dispersione scolastica alla scuola secondaria superiore e ridare legittimità all’educazione alla cittadinanza”. Così l’incipit dell’articolo di Alex Cortazzoli sul “Fatto Quotidiano” del 1° febbraio.
Com’è noto, il voto di condotta può influire in due modi sulla valutazione finale. Influisce sull’ammissione all’esame di Stato se va da 6 a 10, ma pochissimo, perché fa media con molte materie. L’obbiettivo principale di Milena Santerini è però il secondo modo, il 5 in condotta finale con il quale si ripete l’anno. Infatti afferma con sicurezza: “Non si capisce perché un giovane che ha un otto in matematica debba ripetere l’anno se ha l’insufficienza in condotta. Di fronte a dei comportamenti scorretti, dobbiamo trovare altre soluzioni, delle punizioni esemplari, dei percorsi di volontariato, ma non possiamo penalizzare con la bocciatura un ragazzo”.
La deputata di “Democrazia solidale”, tra l’altro docente di pedagogia all’università Cattolica di Milano, dimostra di conoscere poco il mondo della scuola; infatti in quasi tutti i casi di bocciatura l’insufficienza in condotta si accompagna a numerose e gravi insufficienze nelle materie. Ma anche se ci fossero casi di studenti virtuosi nello studio, responsabili però di comportamenti molto gravi, la loro mancanza di rispetto delle regole a maggior ragione dovrebbe pesare nel giudizio finale per l’esempio negativo che darebbero ai loro compagni. E comunque, quanti sono stati finora i casi di ripetenza per via del comportamento? La Santerini non ce lo dice, ma c’è da scommettere che siano una percentuale minima. È quindi assurdo pensare di combattere l’insuccesso scolastico “depenalizzando” il 5 in condotta.
Si tratta, allora, del buonismo tipico di buona parte dei pedagogisti, i quali ritengono che per far crescere la società italiana occorra creare un senso di cittadinanza, integrare le nuove generazioni, far dialogare le culture e mettere al centro del rapporto didattico gli allievi, ma poco parlano di una scuola esigente sul piano dell’apprendimento e del comportamento, svalutando così fortemente il ruolo dei docenti.
Infatti si affida alla scuola la funzione di formare l'uomo e il cittadino (possibilmente del mondo, non del proprio Paese, nei confronti del quale si è solo dei rivendicatori di diritti, liberi da ogni dovere), ma a questo scopo un voto di condotta che abbia delle conseguenze viene considerata una forma arcaica di controllo sugli individui e un’illegittima interferenza sulla valutazione del profitto. Invece la disciplina scolastica e il relativo voto di condotta non solo servono a educare alla convivenza civile, ma sono parte essenziale della formazione degli allievi e non una limitazione della loro personalità. Gli studenti sono ragazzi che crescono, che scoprono se stessi, che si misurano con gli altri e così conquistano il principio di realtà.
Ma il voto di condotta serve in modo particolare allo studente socialmente e culturalmente svantaggiato, tendenzialmente dropout, che non è certo il buon selvaggio guastato dalla società di cui parla Rousseau. È spesso un ragazzo cresciuto in un mondo senza regole, dove è frequente la prevaricazione, e ha bisogno più di altri di appoggiarsi alle certezze delle regole di una scuola in cui vige il principio di autorità e quello della responsabilità personale. Senza di che resterebbe confinato anche da adulto nel mondo di marginalità da cui proviene; e di questo dovrebbe ringraziare proprio il buonismo dei “progressisti” e dei pedagogisti. (Sergio Casprini)