venerdì 30 maggio 2008

E SE BOCCIASSIMO IL VECCHIO LATINO?

Da "La Stampa" di oggi.

Commento (GR). Ah, finalmente abbiamo trovato che cosa non va nella scuola italiana: il latino. E perché? Risponde Attilio Oliva, presidente dell'Associazione Treellle: "Perché il carattere di obbligatorietà fa del latino una delle materie meno amate e quella che presenta un primato nei debiti formativi. Chi lo studia per scelta, infatti, come gli americani o gli inglesi, lo studia bene e lo sa." Quindi non è tanto il latino, ma l'obbligatorietà della materia; basterà quindi renderle tutte facoltative? Anche quelle scientifiche di cui tanto si lamenta la carenza nei nostri studenti? Ma poi, via, obbligatorietà a parte, "le lingue classiche sono percepite come un fattore di distinzione sociale. Tra quelli che studiano latino o greco – rileva Treellle - l’80% ha il padre laureato (contro il 20% di chi è agli istituti tecnici o professionali), il 71% proviene da una famiglia di alto livello culturale (29% nel caso di Itis), il 78% ha una biblioteca in casa (contro il 30% degli altri). E così il latino brilla di alta società, anche quando, sostanzialmente, lo si ignora". Torniamo quindi pari pari agli anni '60, quando il latino fu la vittima sacrificale del passaggio alla scuola di massa, il responsabile primo dell'odiosa selezione di classe.
Ma l'articolo è tutto da leggere, a cominciare dalla visione orrorifica dei bambini usciti con l'ansia di conoscere dalle elementari che - dice il fisico Carlo Bernardini - "passano sotto le grinfie della burocrazia pedagogica tradizionale, e incominciano a essere ammaestrati a 'presentarsi' da persone a modo" (cosa evidentemente considerata disdicevole). E non poteva mancare il solito Berlinguer.
Naturalmente dietro questo piuttosto sciocco assalto al latino si intravede la scorciatoia verso una maggiore presenza delle scienze, in sé senza dubbio auspicabile, anche se, ragionando col metro della popolarità come fa Oliva, purtroppo neppure la matematica ha in genere una buona stampa tra gli studenti. E se invece si eliminasse, al posto del latino, tutto il ciarpame dei progetti, delle educazioni, e magari delle autogestioni e delle occupazioni?
Buona lettura.

giovedì 29 maggio 2008

NIENTE "ESAMI DI RIPARAZIONE"?

Si avvia forse verso il classico pasticcio italiota la vicenda del "recupero dei debiti". Secondo l'articolo che pubblichiamo qui sotto, le scuole potrebbero ottenere di spostare la verifica ad anno scolastico iniziato; il che significherebbe, molto semplicemente, iscrivere alla classe successiva anche gli studenti che durante l'estate non hanno recuperato affatto le insufficienze, con tanti saluti agli "esami di riparazione". (GdF)

("Leggo" Milano)

La telenovela debiti ed esami di riparazione, come anticipato lunedì da Leggo, avrà un finale a sorpresa. Il ministero dell’Istruzione è orientato a chiudere un occhio come sottolinea l’agenzia Ansa citando fonti di viale Trastevere. Dopo mesi di proteste, scioperi, manifestazioni e sit-in di ragazzi e insegnanti contro la normativa per i corsi di recupero e le verifiche finali, introdotta in corso d’anno dal Dicastero di viale Trastevere sono attese le “aperture” da parte dal neo Ministro Mariastella Gelmini per un “ammorbidimento” della normativa, accogliendo così la richiesta degli studenti di considerare “sperimentale” questo primo avvio del recupero.Secondo indiscrezioni sarebbe al vaglio una circolare, presto sulle scrivanie dei singoli dirigenti scolastici, in risposta ai disagi presentati dalle scuole soprattutto per le gravi carenze economiche: l’autonomia degli istituti consentirebbe dunque di organizzare corsi inferiori alle 15 ore, con un numero di partecipanti stabilito dal consiglio di istituto. I dati relativi alla quantità di insufficienze da colmare sono allarmanti, circa 4 milioni di debiti per un milione di studenti, ed andrebbero a gravare sull’organizzazione delle scuole nel periodo estivo e sulle vacanze delle famiglie dei ragazzi, dei docenti e del personale Ata. Il vero nodo da sciogliere è quello del “termine ultimo”: le scuole, infatti, chiedono di poter far slittare, di qualche settimana oltre l’avvio del nuovo anno scolastico, i tempi per i recuperi. E il ministero, che ancora non si è espresso ufficialmente, sta cercando una formula tecnica per evitare contrasti con la normativa Fioroni. Sul piatto anche la possibilità di un avvio ritardato (al 20 settembre come riportavano alcuni organi di informazione) dell’anno scolastico a settembre. Ma così, forse, la procedura somiglierebbe troppo ai vecchi esami di riparazione.

Lorena Loiacono

lunedì 26 maggio 2008

GIOVANI IN CERCA DI RESPONSABILITA' di Claudio Risé

("Il Mattino" del 26 maggio 2008)
Il noto psicologo junghiano, studioso dell'eclissi del padre e del maschile, risponde alla proposta di affrontare il bullismo con l'educazione civica.
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I7OVE&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

sabato 24 maggio 2008

LA GELMINI: CONTRO IL BULLISMO L'ORA DI EDUCAZIONE CIVICA di Giulio Benedetti

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I72FA&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

("Corriere della Sera" del 24 maggio 2008)

Commento. Se il bullismo dipendesse da scarse conoscenze sulla Costituzione e sugli istituti fondamentali del vivere civile, saremmo a cavallo. Ma temo che nessuna analisi seria abbia preso in considerazione questa eventualità (lo dice uno che l'educazione civica la insegna). Secondo Dan Olweus, dell'università di Bergen in Norvegia (tanto per citare il primo studioso del fenomeno), il bullo è in genere il frutto di un'educazione insieme permissiva e poco affettuosa. E di permissività è tutt'oggi intrisa tutta la società, con il suo rispetto facoltativo delle regole, i suoi tabù sulle sanzioni. la sua incapacità di guidare i giovani con sollecitudine unita alla fermezza.
Se i genitori e gli insegnanti non recuperano con convinzione la loro "auctoritas", che è etimologicamente la capacità di far crescere, mancherà la base di ogni strategia antibullismo. Se al bullo si spiega che la sua libertà finisce dove comincia quella degli altri e poi gli si perdona un sopruso, quale dei due messaggi assimilerà?
Il Ministro dovrebbe invece puntare "in modo forte" sul rispetto delle regole, fare in modo che tutti gli Istituti abbiano e rispettino un regolamento di disciplina, anche le scuole elementari (dove i bambini capricciosi dicono alla maestra "Tanto non mi puoi fare nulla!") e delegittimare senza indugi il buonismo devastante inculcato ai docenti per decenni. E su questa base costruire strategie di recupero e di prevenzione. (GR)

giovedì 22 maggio 2008

BELL'ITALIA: MI HANNO SOSPESO? E IO VADO IN UN'ALTRA SCUOLA...

Diversi giornali, tra cui il Quotidiano Nazionale(http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+precedente&numart=I67I5&tipcod=0&numpag=1&maxpag=2&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1) pubblicano oggi la notizia che lo schiaffeggiatore di un docente, dopo esser stato sospeso per novanta giorni, si è trasferito in un altro istituto per non perdere l'anno. Se nessuno smentisce, ciò significa che questa enormità non è vietata; eppure è come se il ritiro della patente valesse soltanto nel Comune in cui l'automobilista si è comportato male...
Naturalmente c'è sempre un preside che la sa lunga in tema di "disagio". Commenta infatti sul "Corriere della Sera Lombardia" un ex dirigente di quello stesso istituto: "Lo schiaffo dato al professore è sintomo di un problema che va risolto alla radice. I tre mesi di sospensione sono giusti, ma da soli non valgono nulla. Penso che fosse necessario intervenire prima".
Insomma, in ultima analisi la responsabilità non è del ragazzo, ma della scuola che non è intervenuta, magari spiegando che non si schiaffeggiano i docenti...
(GR)

OCCORRE RIPARTIRE DAL MERITO E DAI PROGRAMMI di Sergio Belardinelli

("L'Occidentale") del 21 Maggio 2008

Scuola, università e ricerca scientifica – ormai lo dicono tutti - rappresentano la cartina al tornasole dello sviluppo di un Paese. Non c’è problema cruciale che in ultimo non passi di lì. Proprio per questo chi ne porta la responsabilità, vista la situazione in cui ci troviamo, è gravato di un compito che non esiterei a definire immane. Non starò a dire delle molte incrostazioni che in questi ultimi decenni hanno appesantito fin quasi alla paralisi un Ministero che, per le funzioni che ha, andrebbe considerato come un Ministero chiave al pari del Ministero degli affari esteri o di quello del tesoro. Mi soffermerò invece brevemente su alcune cose che ci si dovrebbe sforzare di fare subito, con particolare riguardo alla scuola e all’università. Si ha la sensazione che l’uscita di scena del Governo Prodi le abbia come risparmiate dal colpo di grazia; ma di certo non godono buona salute. L’università, per esempio, deve uscire al più presto dallo stato di catalessi in cui sembra essere piombata. Occorre fare in modo che la seconda trance dei posti da ricercatore già finanziata da Mussi venga bandita subito con il sistema di reclutamento vigente; lo stesso dicasi per i cosiddetti PRIN del 2008; se non vengono fatti partire immediatamente, c’è il rischio che la ricerca universitaria venga bloccata per un anno. Bisogna infine mettere mano ai sistemi di promozione e di reclutamento dei professori. Distinguo intenzionalmente tra “promozione” e “reclutamento”, poiché credo che un conto sia promuovere qualcuno, renderlo cioè “idoneo” a ricoprire un posto da professore, altro conto è che una università lo “recluti”, cioè lo assuma”. Si tratta in sostanza di rendere possibile al più presto la formazione di una lista nazionale di “idonei”, dalla quale le università possano attingere secondo le loro reali esigenze. Qualcuno dirà, giustamente, che al momento della finanziaria si dovrà soprattutto destinare all’università finanziamenti ben più consistenti di quelli attuali, oppure che, prima o poi, si dovrà mettere mano al problema del valore legale dei titoli di studio. Sono d’accordo. Intanto però mi sembra che i due o tre provvedimenti che ho sommariamente indicato possano rappresentare il segnale importante di una volontà di ripartire, di uscire dall’impasse, della quale c’è grande bisogno.
Più complesso e drammatico è il discorso per quanto riguarda la scuola. La cosiddetta “emergenza educativa”, nonché innumerevoli segnali, che fanno pensare addirittura a un collasso del sistema, sono ormai sotto gli occhi di tutti. E’ quindi difficile immaginare qualcosa da fare subito. Ma proprio per questo è urgente quanto meno lanciare alcuni messaggi, indicare alcune priorità. Intanto bisognerebbe mettersi in linea con gli obiettivi stabiliti nel 2000 dal Consiglio Europeo di Lisbona, incominciando magari con una battaglia più incisiva contro l’abbandono scolastico. I tassi di abbandono nella scuola secondaria italiana sono intorno al 20%, ben 5 punti e mezzo sopra la media europea. Sarebbe poi necessario creare davvero un secondo canale d’istruzione e formazione professionale che, con pari dignità rispetto ai percorsi formativi dei licei o degli istituti tecnici, sappia rispondere sia alle esigenze del mondo del lavoro, sia, soprattutto, alle esigenze di quei giovani che spesso vanno a incrementare i tassi di abbandono scolastico. Abbiamo poi il problema della riqualificazione e del rilancio della figura dell’insegnante. Non è immaginabile che la scuola funzioni con insegnanti mal pagati, demotivati, alle prese quotidianamente con riunioni spesso inutili e ai quali, poniamo, non viene più richiesto di aggiornarsi e di studiare. Altro capitolo importante è quello della libertà d’educazione in vista di una scuola che sia veramente “pubblica”. Come ha affermato di recente il Governatore della Banca D’Italia, Mario Draghi, occorre aumentare “la concorrenza tra gli istituti pubblici e privati, con modalità di finanziamento che da un lato premino le scuole migliori e dall’altro trasferiscano risorse direttamente alle famiglie per ampliarne le possibilità di scelta”. E’ insomma sul merito che occorre impostare o re-impostare la valutazione degli alunni, degli insegnanti e delle stesse scuole. C’è poi la questione scabrosissima dei programmi scolastici, ispirati per lo più a una pedagogia tanto presuntuosa quanto evanescente. Nella scuola primaria, ad esempio, credo che vada presa molto sul serio la volontà manifestata dal Ministro uscente Fioroni di ripristinare alcune evidenze educative fondamentali, quali lo studio della grammatica italiana, delle tabelline e della geografia. Certi contenuti educativi non possono essere sacrificati sull’altare delle metodologie di apprendimento o, peggio ancora, di “autoapprendimento”. Anche a rischio di apparire antiquato, aggiungo infine che non sarebbe male riproporre nelle nostre scuole l’importanza della disciplina come forma di rispetto di se stessi e degli altri e magari il ritorno al vecchio voto, spazzando via quegli stucchevoli giudizi che affannano insegnanti, genitori e alunni, senza che nessuno ci creda.
Su tutti questi temi che ho sinteticamente indicato (se ne potrebbero indicare molti altri) è importante dare subito qualche segnale di svolta. Se è vero, come dicevo all’inizio, che i problemi più importanti di ogni società passano in ultimo dalla scuola; se è vero altresì che di questo incominciamo ad essere tutti consapevoli, allora è tempo che a questa consapevolezza corrispondano comportamenti concreti da parte di famiglie, istituzioni e opinione pubblica. Non è più tempo di chiacchiere. Ne va addirittura della capacità dei nostri figli di sentirsi a casa in un mondo sempre più difficile, certo, ma anche sempre più ricco di opportunità. Se solo le sapessimo cogliere.

QUALCHE CONSIGLIO UTILE A MARIA STELLA GELMINI di Giorgio Israel

("L'Occidentale" del 21 Maggio 2008)

Il primo buon consiglio dato al nuovo ministro dell’Istruzione e dell’Università Mariastella Gelmini è quello che gli è già venuto da Angelo Panebianco: studiare a fondo i dossier, ascoltare i pareri di tutte le persone e di tutti gli organismi competenti, riflettere e decidere senza fretta. È vero che il sistema dell’istruzione e della ricerca sono allo sfascio, ma una cattiva cura propinata a un malato grave può ammazzarlo anzitempo. Non si può aspettare troppo, ma ogni provvedimento assunto in modo affrettato può rivelarsi fatale. Come ha detto ancora Panebianco, ne va del futuro del nostro paese, non si può più sbagliare.
Tuttavia, per poter agire in questo modo occorre che il ministro si metta dei tappi metaforici nelle orecchie per non essere assordato dallo strepitìo che le si sta levando intorno, per toglierli deliberatamente soltanto quando ha deciso autonomamente di ascoltare qualcuno.
La doppia paginata del Corriere della Sera di mercoledì 14 maggio dà un’idea chiarissima del clima isterico e caotico che regna nel settore dell’istruzione. “Debiti a scuola, esami a rischio”, “Corsi nel caos”, “Scenario apocalittico”. Il tutto con un bombardamento di consigli avanzati con fretta e leggerezza irresponsabili. C’è chi addirittura sentenzia che, per quanto riguarda i corsi di recupero, l’unica strada possibile è “sospendere tutto”; chi propone il ritorno immediato agli sbarramenti biennali; chi borbotta che l’intenzione di Fioroni era giusta ma lo strumento sbagliato; mentre i soliti sindacati, invece di attenersi alle questioni salariali e normative che dovrebbero essere loro specifica competenza, invitano al ministro a “riprendere in mano la questione dei livelli di apprendimento”, il che è quanto rispondere all’emergenza blaterando del nulla. La stampa inzuppa il pane: 1.200.000 studenti affetti dal “mal di scuola” con una crescita del 15% in un anno, 700.000 colpiti da dolori addominali, 350.000 da cefalee, 150.000 da insonnia e inappetenza. Sarebbe interessante sapere chi e come ha fatto questi conteggi. Che vergogna… Come se non sia normale avere dei disturbi per le paure scolastiche. Li abbiamo avuti tutti e siamo qui, vaccinati. Malori sani che educano ai malori che si dovranno patire comunque da adulti nei luoghi di lavoro o in famiglia. Tanto vale addestrarsi subito. E se i ragazzi prima erano tutti esenti da malori, vuol dire che la scuola era il paese dei balocchi.
Di fronte a questo scenario di lagne indecenti e indecentemente coccolate, il ministro dovrebbe pretendere con energia da tutti silenzio, decoro e senso di responsabilità. La situazione è caotica, i problemi innumerevoli, ma sarà possibile risolverli soltanto con scelte meditate e organiche e non con misure tampone che chiudono una falla aprendone altre dieci.
Un altro consiglio al ministro è di fare piazza pulita di tutte le commissioni pletoriche e di tutti i convegni e simposi che, a costi spropositati, servono soltanto a produrre maree di documenti verbosi la cui unica utilità è di creare posizioni di potere per coloro che li hanno elaborati. In breve, ricominci da zero, liberandosi dallo stuolo di pseudo-esperti, didatti, pedagogisti, docimologi, burocrati di varia sorta che affollano i corridoi ministeriali. Eviti soprattutto di mettere tutto nelle mani del solito pedagogista di stato onnisciente di tecnicismi didattici e sprezzante di contenuti e discipline. Getti nel cestino qualsiasi proposta che non sia scritta in un linguaggio piano, comprensibile, razionale e sintatticamente limpido, e che copra il vuoto concettuale dietro una fraseologia barocca, pretenziosa e falsamente professionale. Per esempio, una relazione che contenga termini del tipo “competenze dichiarative e competenze procedurali” dovrebbe essere cestinata senza pietà e il suo estensore messo alla porta.
Infine, assuma come principio di base che se si vuole iniziare a rimettere in sesto la scuola e l’università occorre richiamarne gli attori principali al senso di responsabilità, alla calma e al decoro. Questi attori principali sono gli insegnanti e gli allievi: gli altri devono venire a debita distanza. I primi debbono essere reinvestiti del ruolo di maestri e, in quanto tali, debbono essere ben consapevoli che una tale funzione comporta onori e vantaggi ma anche precisi doveri e oneri, il che è quanto dire vantaggi in termini di retribuzione e di prestigio, l’obbligo di esercitare una funzione educativa al massimo livello e l’onere di sottoporsi a verifica. Per parte loro, gli studenti debbono essere consapevoli dei doveri che la scuola impone: rispetto delle regole, comportamenti civili e impegno massimo nello studio. Per tutti debbono valere due principi: a scuola si va per apprendere e quindi al centro della scuola sono i contenuti dell’insegnamento; il rapporto tra insegnante e allievo è un rapporto tra persone per la trasmissione delle conoscenze e non una relazione tra prestatori d’opera e utenti. Se non riuscirà a far accettare da tutti queste poche e semplici premesse è facile profetizzare che il nuovo ministro, come qualsiasi ministro, si troverà a navigare in mezzo a una tempesta di proporzioni crescenti che nessun marchingegno normativo riuscirà a placare.

mercoledì 21 maggio 2008

UN RICORDO DI GIOVANNI NENCIONI di Giorgio Ragazzini e Valerio Vagnoli

Pochi giorni fa è stato ricordato, nella bellissima sede dell’Accademia della Crusca, il professor Giovanni Nencioni, illustre studioso della lingua italiana, scomparso poche settimane fa a Firenze all’età di 96 anni.
In quell’occasione sono stati sottolineati i moltissimi meriti che il professor Nencioni ha avuto e dei quali in molti abbiamo beneficiato e continueremo, per fortuna, a beneficiare. Ma c’è un aspetto che vorremmo ancora sottolineare: il suo impegno civile che, com’era nel suo carattere schivo e appartato, potrebbe rischiare di passare in secondo piano rispetto agli enormi meriti di carattere scientifico che, sul piano degli studi linguistici, lasceranno senz’altro una testimonianza da cui nessun futuro studioso della nostra lingua potrà prescindere.
Quando Montanelli alla fine degli anni ’80 venne a sapere che l’Accademia della Crusca, che Nencioni diresse per quasi tre decenni, versava in brutte acque per i mancati finanziamenti da parte del ministero, aprì una sottoscrizione sul suo Giornale che ebbe risultati davvero inaspettati, a testimonianza dell’affetto che l’Accademia si era saputa conquistare in maniera diffusa tra vasti strati della popolazione italiana. Nencioni utilizzò quei soldi per avviare la pubblicazione di un semestrale, (“La Crusca per voi”) dedicato a chi amava e ama la lingua italiana, ed in modo particolare alle scuole, che fu inviato gratuitamente a chiunque ne avesse fatta richiesta, finché durarono i fondi raccolti.
Vale la pena di sottolineare che una gran parte della rivista era dedicata, e lo è tuttora, a fornire risposte ai quesiti dei lettori. Nello stesso tempo “La Crusca per voi” non rinunciava, esattamente come continuò ad accadere anche dopo che egli non fu più in grado di seguirla direttamente, ad avvalersi di una profonda caratura scientifica, senza alcun cedimento alla faciloneria o a istanze populistiche, così ricorrenti in tanti intellettuali novecenteschi quando hanno inteso fare qualcosa per diffondere la cultura anche ai non addetti ai lavori.
Con la presidenza di Nencioni l’Accademia della Crusca si aprì progressivamente al mondo della scuola e lui stesso si rese sempre disponibile ad andare nelle scuole a parlare della lingua italiana e di quanto fosse importante che la sua evoluzione e la sua storia trovassero uno spazio preciso nei percorsi scolastici sia di primo che di secondo grado.
Professore alla Scuola Normale di Pisa e presidente dell’Accademia della Crusca, si prestò, con una disponibilità molto rara nel mondo accademico italiano, a far pubblicare addirittura un suo intervento in un giornaletto scolastico al quale mandò, allo stesso modo di quanto avrebbe fatto con una prestigiosissima casa editrice, le sue cartelle dattiloscritte e corrette.
Purtroppo con questo suo rapporto col mondo della scuola, non si può dire che abbia anticipato i tempi: il mondo accademico italiano è ancora lontanissimo dal guardare alle esperienze e alle istanze del mondo scolastico e se talvolta lo fa gli manca quella profonda e convinta adesione umana e culturale che invece Nencioni aveva. D’altra parte, se oggi l’Accademia della Crusca ha una presidente donna e se sotto la presidenza di Nencioni il numero delle accademiche diventò senza precedenti, ci sarà pure un motivo.
Restano infine da ricordare le lezioni del docente di storia della lingua italiana: il linguaggio terso, la comunicativa cordiale e misurata, la capacità di chiarire i concetti con esempi e citazioni ne facevano una guida sicura che, alieno com’era da ogni ostentazione, non intimidiva con la sua cultura. E molti sono infatti stati i suoi allievi, a cui è oggi affidata, ciascuno secondo il proprio stile, la sua eredità di studioso e di maestro.

UNA LETTERA AL QUOTIDIANO "L'AVVENIRE" RICORDA GIUSTAMENTE I MERITI DI FIORONI (Giuseppe Compagnoni)

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=I5UWU&tipcod=0&numpag=1&maxpag=1&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1

martedì 20 maggio 2008

IL COMPUTER NON È UN IDOLO. Arrestiamo il disastro. Basta competenze e metodologia, dalla scuola vogliamo conoscenze

di Giorgio Israel
("Il Foglio", 20 maggio 2008)

In un recente articolo (“Corriere della Sera”, 12 maggio) Francesco Giavazzi ha richiamato la centralità della questione educativa ammonendo che società e individui che perdono istruzione vengono messi fuori gioco. A suo avviso, il “premio all’istruzione” è conseguenza della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica (internet, computer e uso crescente di modelli fisici e matematici nella finanza) per cui è compito del sistema educativo «tenere il passo» con i progressi della tecnologia. In realtà, il successo del modello occidentale (che è all’origine della sua globalizzazione) deriva dall’idea di una tecnologia fondata sulla conoscenza teorica. Pertanto, un’educazione che insegue la tecnologia segnala una condizione regressiva (una tecnologia che procede indipendentemente dall’istruzione di base) e/o una ricetta sbagliata (un’istruzione che insegue la tecnologia non va da nessuna parte). Difatti, i fattori di innovazione tecnologica indicati da Giavazzi sono di per sé vuoti di contenuto e non offrono prospettive educative. Internet e il computer sono meri strumenti con cui si possono fare eccellenti ricerche bibliografiche (se si è appreso come farle!) o scaricare informazioni improbabili da Wikipedia (per esempio che il Cardinale Ratzinger nel 1990 condannò Galileo), elaborare efficaci modelli matematici (se si conosce la matematica!), fare videogiochi o visitare siti pedopornografici. Non a caso, negli Stati Uniti si tende ormai a limitare l’uso dei computer nelle scuole: ma da noi le “innovazioni didattiche” vengono adottate quando altrove vengono abbandonate. Quanto alla crescente utilità dei modelli matematici in economia e finanza, vi crede soltanto un mandarinato accademico autoreferenziale che (come ha documentato un recente articolo sul Sole-24 Ore) di nascosto preferisce affidarsi alle previsioni basate sulla cabala o sulle teorie sgangherate del finanziere mistico degli anni 1920 William Gann. Il premio Nobel per l’economia Robert Aumann, recentemente richiesto di fare previsioni circa l’andamento della finanza mondiale sulla base della teoria dei giochi, ha ammesso onestamente che essa non gli permetteva di dire niente più di quanto potrebbe dire un qualsiasi uomo della strada.
Pertanto, non si contribuirà validamente al dibattito sulla riforma del sistema dell’istruzione se non discutendo, e a fondo, dei contenuti da trasmettere: contenuti autentici, non vuote metodologie. Questo è ormai il nodo gordiano della questione educativa in ogni campo. Anche Tzvetan Todorov ha posto tale questione al centro del suo recente libro La letteratura in pericolo, denunciando, in termini coraggiosamente autocritici, il disastro educativo provocato dalle visioni formaliste in letteratura che si concentrano soltanto sulle modalità della scrittura e trascurano i contenuti che essa trasmette, finendo col mettere da parte le opere stesse. Ogni architettura istituzionale e normativa crollerà su sé stessa se si considererà come una faccenda accessoria cosa insegnare; se (esempio emblematico) si pretenderà di insegnare a un bambino a dividere 300 per 15 al seguente modo: disegna 15 alberi e appendi ad essi in parti uguali i disegni di 300 palline, e poi colora tutto… La matematica si è sviluppata proprio per non dover disegnare e colorare centinaia o migliaia di alberi e palline. Qui non è in gioco soltanto un metodo didattico sbagliato, ma una concezione regressiva della matematica.
Più in generale, i dibattiti sull’istruzione appaiono dominati da una vacua ripetizione di formule di cui quasi nessuno conosce il senso. Tale è il caso dello slogan del “passaggio dalla scuola delle conoscenze alla scuola delle competenze”, che viene evocato come una necessità assoluta anche “perché ce lo chiede l’Europa”. Ma noi non siamo in Europa per ripetere a pappagallo qualsiasi formula e accettare qualsiasi sciocchezza – anche il divieto di cuocere la pizza nel forno a legna o le pericolose banalità del “politicamente corretto” – bensì per portare liberamente contributi razionali. Pochi sanno che la pedagogia per obbiettivi è un metodo di formazione professionale sviluppato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale per addestrare tecnici addetti alla manutenzione capaci di operare sotto il fuoco nemico o piloti da combattimento. È evidente che in questo contesto, come in molti contesti tecnico-professionali, è possibile dare una valutazione quantitativa delle prestazioni e quindi fondare in modo accettabile il concetto di “competenza”. I guai cominciano quando si vuole generalizzare tale concetto a ogni forma di apprendimento. Come definire una competenza in storia? La tentazione è di definirla con obbiettivi strampalati come la capacità dello studente di comporre testi storici (come predicano le Indicazioni nazionali del ministero dell’istruzione). Così la giusta esigenza che la scuola stimoli lo studente a una partecipazione attiva deborda nello scenario ridicolo di un popolo di poeti, scienziati, tecnologi, romanzieri, pittori, navigatori e trasmigratori. Sul piano della misurazione, poi, i docimologi – pur evitando di dirlo ad alta voce per non perdere le loro posizioni nelle agenzie di valutazione – ammettono che dopo un ventennio di diatribe e di centinaia di definizioni di “competenze”, misurarle risulta impossibile soprattutto quando intervengono (parole loro) “fattori affettivi e motivazionali”.
Se ci accontenteremo di slogan preconfezionati costruiremo sulla sabbia. Ad esempio, Giavazzi ribadisce giustamente che un sistema di autonomia scolastica richiede un buon sistema di valutazione. Ma, come abbiamo appena visto, la vera questione è cosa sia un buon sistema di valutazione. Non basta dire che è meglio controllare le scuole a tappeto e non a campione. Il problema è che le uniche valutazioni serie sono quelle qualitative, ma un sistema del genere è molto costoso. Viceversa le valutazioni basate su griglie di parametri quantitativi sono spesso inattendibili. Se ci affidassimo ciecamente a sistemi di valutazione improbabili (senza neanche valutarli) potremmo credere di aver fatto il nostro dovere e poi subire un brutale risveglio, com’è il caso di altri paesi, dove si valuta sistematicamente ma i risultati sono non meno disastrosi dei nostri, malgrado quel che fa credere il vizio nazionale di autoflagellazione. Inutile elevare a modello Finlandia e Svezia: le cose vanno molto meglio in India o in Corea del Sud dove si usano sistemi di insegnamento disciplinare e sistemi di valutazione del tutto tradizionali.
Altra questione: inutile parlare di “autonomia” se non precisiamo a cosa ci si riferisce. Appare ragionevole l’idea di concedere agli istituti la facoltà dell’assunzione diretta entro una lista nazionale di idonei. Assai meno ragionevole è l’autonomia intesa come licenza di definire come meglio garba contenuti e metodi dell’insegnamento, per cui in una scuola si aboliranno le ore di lezione, in una s’insegnerà Euclide e in un’altra la matematica cinese con le bacchette, in una si studierà musica col solfeggio e in un’altra battendo le pentole. La “libanizzazione” della scuola sarebbe un esito inevitabile. Né la concorrenza fermerebbe lo sfacelo. Perché una valutazione (e una conseguente graduatoria degli istituti) basata sulla “soddisfazione dell’utente” premierebbe senza ombra di dubbio il paese dei balocchi, come provano i pessimi esiti del parametro della “laurea in tempo” nell’università. Di nuovo servirebbe una valutazione qualitativa aliena da parametri aziendalisti, ma come farla senza la definizione di un insieme di contenuti base imprescindibili? Del resto, un paese che possiede una cultura nazionale degna di questo nome non può rinunciare a tale definizione.
La questione dei contenuti rispunta così da ogni lato. Anche le ragionevoli riserve sollevate da Giavazzi sul sistema (peraltro utile) dei “buoni scuola” richiamano il recente dibattito che si è sviluppato negli Stati Uniti. Giova menzionare un lungo articolo comparso sul Wall Street Journal il 27 febbraio (“School Choice Isn’t Enough”) in cui si spiega come, in base all’esperienza, i buoni scuola si sono rivelati utili ma non a tal punto da condurre alla sperata riqualificazione del sistema pubblico. È l’idea di affidarsi completamente alla concorrenza che si è rivelata inefficiente soprattutto quando si coniuga con le teorie pedagogiche dell’autoapprendimento. Il Dipartimento dell’Educazione ha fatto contratti per 10 milioni di dollari con il Teachers College Reading and Writing Project diretto dalla pedagogista Lucy Calkins, sostenitrice della teoria secondo cui i bambini possono apprendere a scrivere e leggere da soli, con qualche marginale aiuto dei maestri, e l’istruzione fonetica è una forma di abuso sui minori. I risultati si sono rivelati pessimi. Al contrario, nel Massachusetts, senza buoni scuola, senza incentivi di mercato e soprattutto senza pedagogismi, bensì sulla base di un severo curriculum disciplinare basato su un approccio sistematico tradizionale si sono ottenuti risultati considerati come uno “spettacolare miracolo educativo”. Il Massachusetts è oggi in testa in tutte le valutazioni federali per quanto riguarda la matematica e la lingua.
Ci troviamo quindi di fronte a questioni complesse che richiedono approfondite riflessioni ma che – soprattutto – non si risolvono né con gli slogan né con escogitazioni tecniche o con la metodologia, giustamente definita da Lucio Colletti la “scienza dei nullatenenti”.

MITO E REALTÀ DELL’AUTONOMIA SCOLASTICA. OVVERO: HA SENSO CHE CIASCUNA SCUOLA STAMPI LA SUA PAGELLA? di Giorgio Ragazzini

Frequentando le rassegne stampa sulla scuola e i documenti degli esperti, delle associazioni e dei sindacati, ci si imbatte a ogni pie’ sospinto nella parola magica “autonomia”, come ingrediente indispensabile per la soluzione di ogni problema della scuola:
“La promozione del merito... non può essere disgiunta da quella fondamentale dell’autonomia” (Giorgio Rembado, su “ItaliaOggi” del 20.5); “Parità, autonomia, valutazione sono gli strumenti semplici per permettere un miglioramento dal basso della scuola” (Giorgio Vittadini sul “Giornale” del 14.5); “l’Autonomia... è la vera Riforma perché dovrebbe cambiare in modo concreto il modo di fare scuola, quindi incidere in modo sostanziale sui risultati degli apprendimenti” (dalla proposta dell’A.P.E.F., l’associazione professionale fondata da Sandro Gigliotti, per la XVI legislatura). E si potrebbe continuare con decine di citazioni.
Ma a quali condizioni l’autonomia può produrre risultati migliori del centralismo? Ce ne sono due che raramente vengono citate, mentre si insiste molto, e non a torto, sulla scarsità di risorse finanziarie, soprattutto nel primo ciclo.
La prima: un corretto uso del principio di sussidiarietà verticale come regolatore dei rapporti tra Stato e autonomie. In altre parole, come si stabilisce a quale livello spetta fare una cosa qualsiasi? Non dovrebbe essere quello in grado di farla meglio, in modo più rapido e spendendo meno? Se è così, non si capisce perché – per fare solo un esempio – l’ambìto incarico di progettare e stampare le schede quadrimestrali (che, nella fregola nuovista di cambiare nomi, ha perso quello vecchio di “”pagella”) sia stato appioppato alle singole scuole. Quando queste ultime si sono rese conto della spesa a cui andavano incontro, hanno fatto presto a chiedere l’aiuto, almeno a Firenze, dell’amministrazione comunale, che si è offerta di accollarsi l’onere. Nel frattempo una convulsa fase di riunioni cercava di dare forma grafica al nuovo prodotto (ma non bastava copiare la vecchia?). Risultato: pessima impaginazione, con uno spreco di spazio e un deficit di leggibilità che anche un bambino avrebbe evitato. Quanto alla spesa, nessuno si è preso la briga di appurare quanto sono costate in tutto le nuove schede fai-da-te, per poterlo paragonare ai costi dell’odiosa edizione centralista... . A tutto questo va aggiunto il tempo perso da x persone in riunioni varie.
Questo bel parto ci conduci diritti alla seconda condizione per una ragionevole riuscita dell’autonomia: la presenza di competenze all’altezza della situazione. Nel caso in esame, qualcuno che sapesse progettare graficamente un documento chiaro e leggibile. Ma una scuola efficiente dovrebbe saper fare ben altro: corsi e seminari di aggiornamento e ricerca didattica, progettazione di curricoli, approntamento di laboratori e sussidi didattici, documentazione del lavoro svolto... E dove sono queste professionalità, in un mondo in cui già la categoria dei Dirigenti viaggia all’altezza indicata dal compianto Pazzaglia in Quelli della notte? Figuriamoci poi se si dovesse affidare alle singole scuole l’assunzione diretta dei nuovi docenti, anche volendo prescindere (ma possiamo?) dalla disastrosa carenza di etica pubblica, che porterebbe certamente ad assumere, invece dei docenti bravi, l’amica o il congiunto di Tizio e Caio...
In qualche modo si rimedia – o si crede di rimediare – soprattutto con due metodi ben noti anche in altri settori: il pressappochismo e la produzione industriale di aria fritta, di cui sono imbottiti i POF, il cosiddetto “biglietto da visita” delle scuole, vera miniera di cialtronerie di ogni tipo.
Ecco perché è indispensabile creare, ma con serietà e rigore, nuove articolazioni della funzione docente, cioè figure professionali in grado di dare corpo all’autonomia. Altrettanto indispensabile è non vergognarsi di restituire eventualmente allo Stato compiti che le singole scuole non siano ragionevolmente in grado di assolvere, senza dimenticarsi di controllare sempre l’efficienza economica del sistema e delle sue parti. Finiamola quindi di ripetere come un mantra la parola “autonomia”. Anche da qui passa la strada verso la scuola seria.

CONSIGLI AL MINISTRO di Lodovico Festa

("Il Foglio", 20 maggio 2008)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I5CJI&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

UN CONSIGLIO A BRUNETTA E GELMINI: ATTENTI AI SUGGERIMENTI DI GIAVAZZI di Giorgio Israel

Un salutare articolo su un altro dei "miti d'oggi", come avrebbe detto Roland Barthes: la valutazione. Ci vuole, ma se è seria, attendibile e utile. Per parte nostra continuiamo candidamente a sostenere che sarebbe già rivoluzionario, nella scuola italiana, individuare, valutare e sanzionare il demerito, cioè i casi gravi di scorrettezza o inadeguatezza professionale.
(L'Occidentale, 19 Maggio 2008)
In un articolo scritto quando ancora non si conosceva la lista dei ministri, Angelo Panebianco consigliava coloro che avrebbero rivestito tale carica, e in special modo il neoministro dell’istruzione, a comportarsi come Alberto Ronchey, quando fu nominato ministro dei beni culturali: trascorrere il tempo necessario, anche un paio di mesi, a studiare i dossier, consultare tutti i possibili specialisti e tutte le associazioni coinvolte, prima di prendere decisioni affrettate. «Nelle sue mani c’è il futuro del paese» avvertiva Panebianco rivolgendosi al neoministro dell’istruzione.
È giusto che chi ha qualcosa da dire lo dica e alimenti i dossier. Tuttavia, Francesco Giavazzi sembra preso dall’ansia di indurre i ministri Gelmini e Brunetta a seguire senza indugio i suoi consigli senza neppure leggere un dossier. In una sequenza martellante di interventi egli ha proposto ai detti ministri di creare in poche settimane una delivery unit, sul modello di quanto fatto da Blair in Gran Bretagna, ovvero una commissione che analizzi e valuti pubbliche amministrazioni, scuola e università sulla base dei risultati anziché sulla base delle norme e delle procedure, elaborando “in modo scientifico” l’informazione. Egli si richiama alle teorie esposte in un saggio di Roger Abravanel che propone appunto metodi “scientifici” per “misurare” l’efficienza.
Questo proposito da un lato appare attraente, dall’altro sospetto. È attraente e condivisibile l’idea di accantonare norme e procedure per guardare ai risultati. È sospetto non specificare cosa si intenda per “risultati” e ricorrere in modo troppo disinvolto al richiamo alla “scientificità”. Non basta difatti gonfiarsi le gote delle locuzioni “metodo scientifico”, e “su basi scientifiche” per credere di aver risolto il problema: ne abbiamo viste e ne vediamo troppe di cialtronerie docimologiche e valutative – come l’uso della distribuzione gaussiana – per lasciarci intimidire dal richiamo alla “scientificità”.
Gioverà ricordare ancora una volta che il concetto di “risultato” non è lo stesso in tutti i campi: in alcuni è trasparente, in altri è quantomeno fumoso. Difatti, va pure ricordato che la pedagogia per obbiettivi è un metodo di formazione professionale sviluppato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale per addestrare tecnici addetti alla manutenzione, capaci di operare sotto il fuoco nemico o piloti da combattimento, in contesti tecnico-professionali in cui è facile definire come possa darsi una valutazione quantitativa delle prestazioni. Ma appena il “risultato” o “prestazione” non ha caratteristiche semplici, evidenti e facilmente oggettivabili, la faccenda si fa complicata. Giavazzi parla di valutazione degli ospedali secondo tempi medi di attesa, tasso di sopravvivenza, incidenti, emergenze. Sono parametri pertinenti ma del tutto insufficienti. Se si fa attendere poco la gente e il tasso di sopravvivenza è alto, ma la qualità della sopravvivenza è cattiva, per esempio a causa di una mediocre capacità dei chirurghi, la valutazione è francamente sballata. Non esiterei a dire che la maggioranza delle persone preferirebbe attendere qualche giorno in più piuttosto che vedersi operata con conseguenze spiacevoli a distanza di mesi, quando oltretutto nessuno ti viene più a chiedere come stai. Molti pazienti considerano primaria la qualità del rapporto umano con i medici e i paramedici: ho letto or ora una lettera su un giornale di un paziente che loda un ospedale romano per la qualità umana degli operatori e la valuta come una qualità di gran lunga più importante dell’efficienza di certi ospedali del nord.
Pertanto, il criterio dell’efficienza può essere rozzo e fasullo quando non si tratta soltanto di fare manutenzione di un aereo o contare il numero di tiri andati a bersaglio. Quando poi si passa all’istruzione le cose vanno ancora peggio. Quando racconto agli studenti del mio corso che un parametro di valutazione delle università è la percentuale degli studenti che si laureano in tempo, sbarrano gli occhi e chiedono chi sia lo sprovveduto che ha ideato un simile criterio di valutazione. I passati ministri vantavano il miglioramento di questo parametro, ignorando (o facendo finta di ignorare) che per ottenerlo basta promuovere sempre di più: esattamente quel che avviene da alcuni anni e che sta producendo lo sfacelo dell’istruzione universitaria e l’immissione in circuito di una massa di laureati dequalificati. Ma parametri, valutatori e ministri sono beati e contenti di sé. In linea generale, l’unica valutazione seria dello studente è il voto, ma l’entità dei “successi formativi” non è per niente un serio parametro di valutazione di un’istituzione educativa: le cose possono stare esattamente all’opposto, ovvero può essere molto più seria e qualificata un’istituzione che boccia di più e magari è costretta a farlo perché la base sociale culturale dei suoi studenti è peggiore di un’altra che può bocciare di meno. In questi casi, l’unica cosa seria da fare per capire come stanno le cose è una valutazione qualitativa, ovvero prodotta da un commissione di competenti (ovvero altri insegnanti) che indaghi a fondo sul campo e fornisca un rapporto dettagliato eventualmente accompagnato da un “voto”, semplice e trasparente.
Occorre stare molto attenti alle valutazioni basate sulle griglie di parametri. Le indicazioni che esse forniscono vanno prese con grande cautela.. Fa cascare le braccia il riferimento a certi esempi di valutazioni di scuole dati da Giavazzi o anche al test Pisa come sondaggio “scientifico”: esso fornisce un’indicazione molto generica del livello di conoscenze per aree geografiche, ma sarebbe straordinariamente ingenuo prendere per oro colato le graduatorie nazionali da esso stabilita. In realtà, chiunque si dia la pena di rifletterci un minimo e di fare qualche semplice prova, sa benissimo che in queste valutazioni basate su griglie di parametri quantitativi, basta eliminarne o aggiungere qualcuno, modificare anche di poco qualche domanda, per ottenere risultati radicalmente diversi.
Nel campo della ricerca scientifica, poi, nulla può sostituire la valutazione di contenuto dei lavori scientifici fatta da esperti qualificati e riconosciuti del settore. La sostituzione di questo lavoro – che è faticoso ma è l’unico sensato – con griglie di parametri produce risultati spesso pessimi. È pietoso assistere al fatto che si stabilisca che un libro pubblicato in Italia vada valutato 12 e un libro pubblicato all’estero 20, anche se il primo è magari un lavoro profondo edito da una casa editrice di alto prestigio e il secondo una scemenza pubblicata da una mediocre casa editrice, che però è “straniera”. Non è un esempio fatto a caso ma un pezzo di griglia di valutazione prodotta al termini di lunghi “lavori” da un’istituzione. Considerazioni non meno desolanti si potrebbero fare circa i pessimi effetti dell’uso indiscriminato del Citation Index.
In conclusione, occorrerebbe assumere un atteggiamento più meditato e riflessivo dopo aver assistito a un ventennio di disastri, non soltanto italiani, dovuti alla mania di affidarsi a metodi quantitativi che si pretende siano “scientifici”, mentre hanno come unico pregio quello di dare occupazione a chi li escogita: il che pone un serio problema di “valutazione” che però, a quanto pare, non interessa a nessuno. Il che dimostra che l’interesse per le procedure più che per i risultati è un vizio di cui non sono colpite soltanto le amministrazioni pubbliche inefficienti.

lunedì 19 maggio 2008

FIGLI MALEDUCATI? REGOLE CHIARE E DISCIPLINA di Alessandra Graziottin

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I514K&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
("Il Gazzettino")
Un eccellente articolo che sintetizza molto bene il complesso problema dell'educazione in crisi, con i suoi riflessi nella scuola e nella società. Molto giustamente la dottoressa Graziottin, ginecologa, psicoterapeuta e sessuologa, sottolinea che "ci vuole coraggio per dare regole chiare e farle rispettare". Tema, questo, sviluppato anche nei libri di un altro psicologo, Osvaldo Poli, specialmente in
Non ho paura a dirti di no.

Per leggere altri interventi della Graziottin:

http://www.alessandragraziottin.it/articoli.php?ART_TYPE=AQUOT&YEAR=2008.

domenica 18 maggio 2008

DEBITI FORMATIVI: SÌ A CORREZIONI, MA SULLA SERIETÀ NON SI TORNI INDIETRO di Sergio Casprini

In molti articoli e editoriali degli ultimi due mesi si è sottolineata più volte l’esigenza e l’urgenza di promuovere in tutti i campi della società i principi del merito e della responsabilità.
E questo è a maggior ragione necessario nella scuola. Negli ultimi anni il fenomeno del bullismo e soprattutto il basso rendimento scolastico dei ragazzi italiani aveva messo in allarme l’opinione pubblica, per cui opportunamente il ministro Fioroni ha introdotto dei momenti di recupero e verifica. I debiti formativi non saldati, infatti, erano diventati uno dei sintomi più evidenti della scarsa preparazione dei nostri studenti.
Ma in Italia esiste un po’ ovunque, come sappiamo, il partito del no e dello status quo; ne sono la prova le proteste delle organizzazioni studentesche e dei sindacati scolastici tesi a bloccare l’attuazione dei provvedimenti sui debiti scolastici e di ottenerne la revoca, spesso senza neppure riconoscere che quei provvedimenti vanno nella direzione di una scuola più seria.
Riassumendo: il Decreto Ministeriale dell’ottobre 2007 stabilisce alcune cose sacrosante, quali la fine degli indifendibili debiti formativi, un sostanziale, se non formale, ripristino degli esami di riparazione e corsi di recupero estivi come alternativa alle ripetizioni private. Invece le successive norme applicative, soprattutto quelle sui corsi di recupero durante l’anno scolastico, risultano allo stesso tempo confuse e troppo prescrittive, con la conseguenza di creare problemi organizzativi e di moltiplicare la possibilità di ricorsi da parte dei bocciati.
A questo ovviamente si è aggiunta la resistenza degli studenti a subire un controllo rigoroso della loro preparazione e forse anche, sotto sotto quella degli insegnanti più “perdonisti”. Stupisce però che in molti casi la protesta di docenti e presidi, anziché essere orientata a proporre delle correzioni degli aspetti più discutibili del provvedimento, dia proprio l’impressione di voler buttare il bambino con l’acqua sporca per tornare in sostanza alla situazione precedente, quando i debiti non saldati crescevano anno dopo anno.
Ci auguriamo che il Ministro Gelmini, che come deputata della precedente legislatura è stata autrice di un disegno di legge sulla promozione del merito nella pubblica amministrazione e nella scuola, sappia resistere al canto delle molte sirene, che, sia pure in buona fede, rischiano di perpetuare le condizioni per cui anche le nuove generazioni siano formate da bamboccioni ignoranti e nel caso peggiore da bulli e da spostati.

giovedì 15 maggio 2008

DAI GIORNALI DI OGGI

IL SILENZIO DELLA GELMINI
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I3JBZ&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

AL ROGO L'EGEMONIA CULTURALE

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I3FZP&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

SCUOLA E LAVORO TROPPO DISTANTI
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I3PSF&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

LA SVEZIA RILANCIA LA FORMAZIONE PROFESSIONALE - Una scelta su cui meditare

La newsletter dell'ADi segnala questa notizia e rinvia al sito di Norberto Bottani, tra i massimi studiosi europei di sistemi scolastici:
http://norberto.bottani.free.fr:80/spip/spip.php?article216&var_recherche=svezia
Speriamo che il percorso della Svezia e la decisione di tornare indietro rispetto alla precedente "licealizzazione" degli studi tecnico-professionali suggeriscano al Parlamento e al governo italiani un'inversione di rotta rispetto alle decisioni malauguratamente adottate in precedenza.

mercoledì 14 maggio 2008

I (DUBBI) MERITI DEI FAN DEL MERITO di Gian Antonio Stella

("Il Corriere della Sera")
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I33JJ&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

Recensione al libro di Giorgio Israel "CHI SONO I NEMICI DELLA SCIENZA?"

Pubblichiamo la recensione di Gennaro Lubrano Di Diego al libro di Giorgio Israel (uno dei firmatari della lettera aperta ai partiti su Merito e Responsabilità nella scuola), che indica da tempo anche con articoli su vari quotidiani le responsabilità degli errori politico-culturali che hanno portato all'attuale situazione.

A chi lavora nella scuola e vive le difficoltà e le meraviglie del mestiere dell’educare, capita a volte di desiderare di leggere dei libri che descrivano, con competenza e profondità, lontano da clichè usurati e insipienti oppure da miserevoli quanto generiche geremiadi senza prospettiva, il declino e la slavina della scuola italiana ma anche il perdurante fascino dell’avventura educativa, insidiata oggi da una molteplicità di “nemici” interni ed esterni, che attentano ogni giorno di più alla serietà di quella complicatissima e delicata funzione sociale e formativa che è l’insegnamento.
Dobbiamo al rigore scientifico e alla verve da polemista di Giorgio Israel se questo libro sia oggi finalmente consultabile. Il testo ha un titolo e un sottotitolo (Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza) inequivocabili ed evocativi del nesso che l’autore ritiene cogente tra la crisi della scuola e dei saperi che lì si dovrebbero trasmettere e la più generale tendenza dell’epistemologia italiana, che soffrirebbe gli effetti del dominio dello scientismo nelle due varianti dell’oggettivismo assolutistico e del relativismo tendenzialmente nichilista.
Israel è un autorevolissimo matematico ed epistemologo ed è quasi naturale che egli veda il fenomeno dello smottamento delle istituzioni educative del nostro Paese come parte di una più generale crisi della cultura scientifica in Italia. La cornice teorica generale da cui muove la complessa e articolata trama del libro è una discussione critica, puntuale e approfondita, degli esiti culturali, oltre che pratico-economici, a cui sta conducendo la tecno-scienza, cioè una declinazione della scienza nell’ambito della quale l’apporto dell’elemento teorico e della ricerca di base è sempre più sacrificato alla sua dimensione tecnica e pratica.
Alla perdita di consapevolezza del carattere complessivamente conoscitivo e culturale dell’impresa scientifica dell’uomo, soggetta ad una restrizione praticizzante e tecnicistica, si accompagna uno smarrimento esiziale delle relazioni genealogiche che legano il sapere scientifico a quello umanistico-filosofico. In questo modo si contribuisce a scavare un fossato sempre più profondo tra le discipline, che le impoverisce tutte fino a snaturarle nella loro vocazione originaria di strumenti essenziali della comprensione della natura e dell’uomo.
La stessa divulgazione scientifica risente di una interpretazione paleo-positivistica della scienza, identificata, senza alcuna cautela storica e critica, con un’ontologia materialista concepita come necessario presupposto teorico delle applicazioni pratiche e tecnologiche.
Fin qui le considerazioni generali a proposito del testo di Israel.
Ma il libro acquista una valore impareggiabile e che ne fa una vera e propria miniera di spunti problematici per chi volesse ficcare bene bene il naso nella crisi della scuola italiana, quando il discorso epistemologico generale viene, da Israel, declinato per cogliere la complessa necrosi che attanaglia le nostre istituzione educative e che un decennio di convulse e disorganiche riforme legislative ha solo reso più acuta e dolente.
La scuola italiana, secondo Israel, sta subendo da quasi due decenni un attacco concentrico che ne sta dissolvendo la tradizionale – e certo aggiornabile – funzione di trasmissione dei patrimoni culturali della nostra tradizione.
I protagonisti di questo scardinamento sostanziale e sistematico della scuola hanno nomi ben definiti; essi sono lo scientismo dozzinale, un aziendalismo pacchiano e di maniera (che considera il sapere come una merce qualsiasi e gli studenti come utenti), la cultura declinata nella forma della spettacolarizzazione ad ogni costo, il pedagogismo vuoto e pretenzioso, un’enfasi fuori luogo sull’elemento della “valutazione oggettiva”, insensibile alla natura inevitabilmente soggettiva delle prestazioni culturali, che non si lasciano ingabbiare in formalizzate e standardizzate misurazioni quantitative; infine, un metodologsmo altrettanto supponente che presume di surrogare il collasso e lo spezzettamento delle conoscenze attraverso il ricorso alla formula magico-misterica delle competenze o a quella ben più equivoca delle abilità.
Se a ciò aggiungiamo: 1) gli effetti di lunga durata di un permissivismo ideologico, partorito in lontane stagioni politico-culturali, 2) di una cultura egualitaristica che appiattisce le eccellenze sulle mediocrità invece di innalzare le mediocrità al livello delle eccellenze, 3) di un meccanismo di selezione della docenza assolutamente inadeguato, che ha ridotto la scuola a sistema di compensazione di un mercato del lavoro generalmente poco dinamico e asfittico, 4) di una generale perdita di prestigio e di valore della cultura, il panorama sconsolante non può che essere quello che ogni docente vive e patisce ogni giorno nel suo lavoro.
L’analisi di Israel, a questo riguardo, copre la crisi profonda di tutti i gradi dell’istruzione in Italia, dalle elementari alle Università, crisi del resto confermata da recenti indagini e dal rapporto Ocse-Pisa, che impietosamente ha relegato i nostri studenti in fondo alla classifica delle competenze in alcune discipline.
Fin qui la pars destruens dell’analisi di Israel, che, sul piano politico, non fa sconti né al centrodestra né al centrosinistra, accumunati da un’analoga attitudine alla estemporaneità delle politiche della formazione e dell’istruzione, poco consapevoli del dramma educativo che viviamo
Israel sembra invitare i docenti italiani, di ogni ordine e grado, ad una presa di coscienza della gravità della crisi in atto e ad una lotta senza quartiere contro le consorterie dei pedagogisti che vorrebbero ridurre il peso e il ruolo che i contenuti culturali dovrebbero inevitabilmente svolgere nella formazione degli studenti a favore di un “chiacchiericcio metodologico e del cianciare delle tecniche del nulla”.
Questo nella convinzione, come lo stesso Israel ha scritto in un articolo pubblicato tempo fa su Il Mattino, chiamando in causa Fabrizio Foschi, che “la relazione tra docente e allievo nell’apprendimento non può essere ridotta a un problema tecnico e non esistono didattiche operative che garantiscano un buon trasferimento delle conoscenze dall’insegnante all’alunno. Il processo di apprendimento si basa su un rapporto tra persone, in cui «l’adulto comunica anzitutto, attraverso la materia o l’attività che svolge, una ipotesi di significato che vive in prima persona, e l’allievo impegna la sua libertà nella verifica, talvolta faticosa ma sempre appagante, della scelta di una strada esistenziale, culturale e professionale che si chiarifica seguendo dei maestri.
Gennaro Lubrano Di Diego

martedì 13 maggio 2008

ARTICOLI DALLA RASSEGNA STAMPA del Ministero della Pubblica Istruzione:

PER PREMIARE IL MERITO NON BASTA UNA CLASSIFICA di Giacomo Vaciago

(“Il Sole24Ore”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=I2O6V&tipcod=0&numpag=1&maxpag=2&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1

IL MINISTRO GELMINI TRA DUE FUOCHI di Orazio Niceforo
(“L’Avanti”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=I2RP2&tipcod=0&numpag=1&maxpag=1&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1
Commento
. Ma la contrapposizione tra globalizzatori e neoconservatori è in parte artificiosa: anche Pirani, come Giavazzi, punta su merito e responsabilità per tutti gli attori della scuola e non a caso è tra i firmatari della Lettera aperta da noi promossa. Semmai è sulle proposte di deregulation che Pirani non sarà d'accordo.
Il parere di Niceforo poi, che si schiera con Giavazzi, suona alquanto generico, così come espresso, dove dice di ritenere che la soluzione "debba essere cercata in avanti e in un quadro internazionale, e non all'indietro e in un'ottica nazionale". Un mio amico direbbe:"Ma... concretamente?". Tanto più che tutto l'insopportabile pedagogismo che affligge la scuola è quasi tutta roba di importazione, anche se incrociata con le ideologie egualitarie incontrate in àmbito italiano.

LICEI, ARRIVA IL DECRETO SALVADEBITI di Alessandra Ricciardi
(“ItaliaOggi”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=I2OA3&tipcod=0&numpag=1&maxpag=2&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1

PAGELLA ADDIO, I VOTI DEI PROF SOLO SU INTERNET di Giulio Benedetti
(“Corriere della Sera”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I2OAW&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

UNICA VIA IL POTERE DI PUNIRE E PREMIARE di Giovanni Sabbatucci
(“Il Messaggero”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I2NW5&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

giovedì 8 maggio 2008

CON IL NUOVO MINISTRO UNA SCUOLA DEL MERITO?

(Dalla rassegna stampa del Ministero della P.I.)

Al nuovo Ministro Mariastella Gelmini Angelo Panebianco consiglia di studiare bene i numerosi dossier della scuola prima di parlare: http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I0OBT&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1. Sul "Riformista" Mario Ricciardi si appassiona all'ipotesi di un reclutamento decentralizzato dei docenti, cioè affidato almeno in parte alle scuole: http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I0XNK&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1. "L'Avanti", con Orazio Niceforo, auspica che per il nuovo ministero il merito abbia un valore strategico sia per gli studenti che per i docenti: http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I0YOQ&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1. Francesco Lo Dico di "Liberal" firma un'intervista con Marcello D'Orta (ovviamente intitolata Speriamo che se la cavino) il quale ammonisce: "Servono regole. Poche, benedette e subito. Il caos spezza la vita dei ragazzi" (http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I0YTG&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1). Anna Maria Sersale, sul "Messaggero", sostiene che "il nuovo governo vede con favore un ritorno più esplicito agli esami di riparazione":http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I0VQI&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Chi volesse pubblicare i suoi auspìci su questo blog, può scrivere a gruppodifirenze@libero.it
Buona lettura: http://gruppodifirenze.blogspot.com/

martedì 6 maggio 2008

LA SEVERITA' A SCUOLA ASSENTE DA TROPPO TEMPO (lettera di un insegnante)

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I02HR&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Commento. Nella rubrica dedicata alle lettere tenuta sul "Tempo" da Pietro Gargano, da leggere quello che scrive Giancarlo Caputi di Napoli, docente con esperienza di insegnamento nel carcere di Nisida. Il curatore risponde sulla stessa lunghezza d'onda.

LA SCUOLA CONFLITTUALE di Dacia Maraini

(Dal "Corriere della Sera" p. 36)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HZZNT&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Commento
. Pubblichiamo questo articolo perché costituisce un classico esempio di come si può parlare di scuola senza disporre di una chiara analisi della situazione, mettendo insieme affermazioni di questo e di quel docente, come fa Dacia Maraini, e finendo per prendere per buone affermazioni assurde, ma tipiche del repertorio dei docenti buonisti. Un esempio: "Lì dove si trovano buoni insegnanti... non si presentano casi di bullismo. Lì dove invece gli insegnanti si mostramo assenti e demotivati, dove manca la curiosità verso nuove idee, il bullismo fiorisce".
E più sotto si dice che il polso deve essere fermo, "non facendo uso di cattivi voti e ricatti [anche se uno non apre libro?], ma con l'esempio, la fascinazione della cultura e l'intelligenza dei rapporti".

CERCANSI MAESTRI VERI, ASTENERSI ASSISTENTI SOCIALI di Antonio Giuliano

Un'intervista con Paola Mastrocola ("Avvenire", p. 21)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I006A&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Commento
. Con Paola Mastrocola siamo d'accordo quasi su tutto. Una piccola osservazione, però, non come replica, ma per evitare che si scivoli, come alcuni fanno, nel "carisma" come ricetta per rilanciare la scuola. Dice la collega: "Il maestro invece è colui che fa lezioni tali per cui l'allievo ha i brividi, ha voglia di emularlo". Questo è senz'altro l'optimum; e, se invece di tormentare i docenti cercando di piegarli alla Vera Didattica, si facessero seminari su seminari per studiare come insegnano gli insegnanti eccellenti, sicuramente la media salierebbe. Ma la scuola deve poter funzionare anche con insegnanti semplicemente seri e preparati, benché non in grado di far correre brividi nella schiena. Quella è una minoranza. Ma a tutti va assicurato rispetto e serenità; su questa base ciascuno darà il meglio di sé.

DON MAZZI: L'ASSENZA DEI PADRI E' IL MALE PIU' GRANDE

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=I00AE&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Commento
. Un tema, quello della crisi del ruolo paterno, su cui sono stati scritti libri importanti fin dagli anni '70. Tra i più recenti: Il padre, l'assente inaccettabile di Claudio Risé e Cuore di papà di Osvaldo Poli.
("Il Tempo", p. 10)

sabato 3 maggio 2008

Legò un alunno al banco e lo imbavagliò. Prof di Salemi condannata in tribunale

di Celeste Caradonna ("Giornale di Sicilia")
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HZ80U&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Commento all'articolo. In premessa è bene chiarire che il comportamento dell’insegnante di Salemi è assolutamente inaccettabile, ma una cosa certamente NON le può essere rimproverata: quella di non aver preso i normali provvedimenti disciplinari. Per un motivo molto semplice: per quanto strano possa sembrare alle persone di buon senso, nella scuola primaria tali provvedimenti NON sono previsti. Naturalmente alcuni bambini non si sognano neppure di aspettare la prima media per comportarsi da piccole pesti, logorando la pazienza delle maestre; ed è giusto chiedersi se un episodio del genere non sia stato favorito proprio dalla mancanza di legittime sanzioni. E’ quindi auspicabile, nell’interesse educativo degli stessi bambini, che il Ministro entrante colmi rapidamente questa lacuna, dotando anche la scuola primaria di un regolamento di disciplina, possibilmente senza corredarlo di tanti “se” e “ma” da rendere impossibile la rapidità dei provvedimenti (ogni riferimento allo Statuto delle studentesse e degli studenti è tutt’altro che casuale).

giovedì 1 maggio 2008

CRONACHETTE DEL BUONISMO. "In fondo è solo maleducazione"

Non è un clamoroso episodio di bullismo, né un caso limite di docente assenteista, è un fatto tra i tanti che quotidianamente accadono nella scuola italiana, in questo senso esemplari di una assoluta “normalità”. La fonte è un collega che sappiamo essere in sintonia con le idee del Gruppo di Firenze, insegnante però in un istituto superiore toscano dove la politica del Dirigente in materia di condotta, rispetto delle regole (anche da parte dei docenti) e provvedimenti disciplinari è assolutamente agli antipodi.
Il fatto: una classe terza, priva di insegnante, viene smistata in biblioteca; una studentessa, maggiorenne, vorrebbe andare in cortile a fumare, la custode che sta sorvegliando la classe gli dice di no e si becca un “ ma tu che cazzo vuoi?”.
Un paio di giorni dopo il docente di cui sopra viene a sapere dell’episodio, constata che la cosa non ha lasciato traccia sul registro di classe e, d’accordo con il coordinatore, chiede la convocazione di un Consiglio di classe per proporre un provvedimento disciplinare. Il Dirigente convoca il Consiglio ma già anticipa che “in fondo si tratta solo di maleducazione.....”
Il Consiglio di classe: dopo che il Coordinatore ha relazionato sul fatto e una docente ha tenuto a sottolineare che la ragazza attraversa un periodo difficile e per questo è particolarmente nervosa, il docente incline alla fermezza, convinto che un simile comportamento debba avere una sanzione prima di tutto nell’interesse della ragazza, propone un giorno di sospensione. Si indigna a questo punto un altro insegnante, il quale non nega che l’episodio sia deprecabile, ma si chiede, presente il Preside, come mai in una scuola dove ne succedono di tutti i colori si decide tutto a un tratto di essere severi proprio con questa ragazza, con la conseguenza di un sette in condotta e di una inevitabile bocciatura ( gli viene fatto notare che tale norma è stata abolita ai tempi di Berlinguer). E che dire dell’esempio che danno molti colleghi che arrivano a scuola in ritardo? Su questo il docente severo non ha nulla da obiettare? Il Dirigente a questo punto invita il Consiglio a riflettere sul fatto che nell’episodio è grave soprattutto il tono particolarmente aggressivo, non tanto il linguaggio che, come è noto, è correntemente usato dagli stessi docenti nelle loro classi (sic). Il docente rigorista, premesso di non essersi ancora adeguato a tale orientamento pedagogico, chiede al Dirigente come regolarsi nel caso che uno studente gli dicesse con garbo “ Professore, mi scusi, ma Lei cosa cazzo vuole?”
Al termine della riunione il Consiglio delibera a grande maggioranza di spedire alla studentessa una ferma lettera di richiamo. Il coordinatore, rivolto al docente severo, dice che in fondo già il fatto che una simile lettera sia spedita è una significativa novità.