sabato 28 ottobre 2017

L’USCITA DEI RAGAZZI, UNA TEGOLA IN PIÙ SULLA SCUOLA DEI RICORSI

(“Corriere fiorentino”, 28 ottobre 2017)
Nel mondo della scuola è diffuso lo scaricabarile in tema di responsabilità di qualsiasi tipo; e spesso alla fine il cerino resta in mano ai docenti e soprattutto ai presidi che in Italia hanno sulle loro spalle oneri che non ha nessun altro dirigente della Pubblica amministrazione.
Oneri tra cui è compreso quello di farsi avvocato dello Stato nelle cause di lavoro relative al proprio personale. Anche quando la responsabilità ricade sul dipendente, quasi sempre le sentenze chiamano a risponderne anche il dirigente per non averlo adeguatamente controllato e istruito in merito ai suoi compiti. Tra questi, secondo quanto stabilito da una recente ordinanza della Cassazione, c’è quello di verificare che gli allievi minori di quattordici anni siano prelevati all’uscita da scuola dai loro genitori o da persona appositamente delegata a farlo. Immaginatevi il caos di quei minuti davanti a scuole frequentate da centinaia e centinaia di allievi, con la possibilità che qualcuno scappi al controllo dei poveri docenti! Ma tornando al problema sollevato da questa sentenza, che ne conferma altre dei Tribunali ordinari, di sicuro essa contribuisce a creare ulteriore tensione tra scuola e famiglie, per le quali è comodo farle la guerra, vista la farraginosa normativa da cui è sommersa. Una normativa su cui sono basate molte — e a volte scandalose — sentenze dei Tar, che danno spesso torto alla scuola. Tanto nessuno o quasi farà ricorso, vista anche l’inadeguatezza degli organici dell’Avvocatura dello Stato, che dovrebbe sostenere le ragioni dell’istituzione.
Rispetto a questo sfascio legale, ma anche culturale, le famiglie e i loro avvocati hanno sempre più possibilità di portare a casa sentenze a loro favorevoli, quando il ragazzo sia stato escluso dall’esame perché scoperto a copiare o perché non ammesso agli esami per le numerose insufficienze. È poi quasi normale che in caso d’infortunio, seppur minimale, vi sia un ricorso con tutto quello che ne consegue.
La stessa ministra Fedeli, anziché limitarsi a intimare al mondo scolastico il rispetto dell’ordinanza della Cassazione, avrebbe l’altra sera potuto ricordare che ogni scuola potrebbe, grazie ai regolamenti d’Istituto, scegliere come organizzare l’uscita degli allievi, anche a seconda della loro età. Un’altra rassicurazione sembra venire nelle ultime ore da Simona Malpezzi del Pd, che si è impegnata a varare le nuove norme per liberare le scuole da questo tipo di responsabilità.
È davvero difficile pensare che un ragazzo di tredici e quattordici anni debba essere consegnato alla fine delle lezioni a un adulto. Personalmente mi auguro che a quell’età e anche qualche anno prima, salvo casi particolarissimi, le ragazze e i ragazzi siano lasciati liberi di tornarsene a casa da soli o in compagnia dei coetanei. Lasciamogli questa libertà utile alla loro crescita e meno rischiosa rispetto a quella di viaggiare, nel fortino della propria camera, davanti a uno schermo su altre «strade», che possono rivelarsi molto più pericolose di quelle che da scuola conducono alle loro abitazioni.
Valerio Vagnoli

mercoledì 25 ottobre 2017

ABOLIRE IL VOTO IN CONDOTTA, ULTIMO ATTENTATO ALLA RESPONSABILITÀ DEGLI STUDENTI (con un’aggiunta)

Chi non punisce il male
comanda che si faccia
(Leonardo da Vinci)

Aggiungo in premessa a questo articolo, già pubblicato su “ilsussidiario.net” del 19 ottobre 2017 e su facebook, un’ulteriore annotazione: l’abrogazione del “5 in condotta” è stata decisa senza dibattiti e consultazioni di sorta. Né i mezzi d’informazione un dibattito, almeno ex post, lo hanno aperto. Si sono quasi tutti limitati a riportare il comunicato stampa del ministero.
Le indagini internazionali Ocse-Pisa non mirano solo a valutare la comprensione di testi di vario tipo da parte dei quindicenni, ma anche a ottenere indicazioni sul contesto dell’apprendimento: condizione familiare, ambiente sociale, differenze di genere. Già in passato nell’analisi dei dati l’Ocse sottolineava l’importanza della disciplina in classe in relazione ai risultati scolastici. E sarebbe la scoperta dell’acqua calda: basta il buon senso per capire che “dove la disciplina è allentata, gli insegnanti sprecano tempo e gli studenti non sono concentrati a causa delle numerose interruzioni”. Ma il buon senso, si sa, è merce rara e mai come in questo caso repetita iuvant.
Non basta. Nell’indagine del 2015 viene fuori che fra le caratteristiche delle scuole in cui gli studenti stanno meglio occupano i primi due posti attività impegnative nelle materie di studio e disciplina (seguono coinvolgimento dei genitori; cura, rispetto e fiducia negli studenti; una relazione positiva tra studenti e insegnanti; equità)[1].
A fronte di queste chiarissime indicazioni, il decreto firmato martedì scorso dalla ministra Fedeli va in direzione esattamente opposta, abrogando il voto in condotta e quindi la relativa insufficienza, con la quale si doveva ripetere l’anno: una delle rarissime iniezioni di serietà che la scuola italiana abbia ricevuto da molto tempo a questa parte. Si è forse corsi ai ripari in séguito a un’epidemia di bocciature per maleducazione? Assolutamente no, anzi c’è da dubitare che la norma sia mai stata applicata (come al solito si fa e si disfa senza rendere noto uno straccio di indagine a sostegno delle decisioni). Del resto la funzione delle sanzioni, se sufficientemente severe e all’occorrenza applicate, dovrebbe essere proprio quella di scoraggiare i comportamenti sbagliati. Quella del ministero è dunque una scelta di carattere puramente ideologico, come confermano le tortuose e inconsistenti motivazioni che la vorrebbero giustificare. Leggiamo: “La valutazione del comportamento sarà espressa d’ora in poi con giudizio sintetico e non più con voti decimali, per offrire un quadro più complessivo sulla relazione che ciascuna studentessa o studente ha con gli altri e con l’ambiente scolasticoMa agli allievi e ai loro genitori la valutazione del comportamento viene comunicata a voce e per scritto durante tutto l’anno, non solo con un giudizio a fine quadrimestre, che peraltro potrebbe tranquillamente accompagnare il voto invece di sostituirlo.
Ancora: via il 5 in condotta, ma “resta confermata la non ammissione alla classe successiva (in base a quanto previsto dallo Statuto delle studentesse e degli studenti) nei confronti di coloro a cui è stata irrogata la sanzione disciplinare di esclusione dallo scrutinio finale”. Si evita però di precisare che nello Statuto questa eventualità è riferita solo a “reati che violano la dignità e il rispetto della persona umana”; e non basta, perché lo si può fare soltanto a una serie di condizioni: “nei casi di recidiva, di atti di violenza grave, o comunque connotati da una particolare gravità tale da ingenerare un elevato allarme sociale, ove non siano esperibili interventi per un reinserimento responsabile e tempestivo dello studente”. In altre parole, chi “si limitasse”, nonostante richiami ed eventuali sospensioni, a un continuo disturbo delle lezioni, a offendere più volte insegnanti, custodi e compagni, a falsificare firme, a uscire di classe senza permesso, insomma se dimostrasse (cosa tutt’altro che rara nelle aule odierne) una radicata maleducazione e l’incapacità di ravvedersi, non correrebbe il rischio di ripetere l’anno.
È incredibile che questa ulteriore mazzata alla funzione educativa della scuola avvenga mentre in tanti si riempiono la bocca con le “soft skills”, le cosiddette competenze trasversali necessarie per vivere in società e nel mondo del lavoro, tra le quali adattabilità e flessibilità, rispetto delle regole e dei livelli gerarchici, autocontrollo, comprensione dei bisogni altrui. E come si può ottenere tutto questo trasmettendo ai giovani continui messaggi di permissività e senza ricordare una sola volta negli ultimi decenni l’esistenza delle responsabilità e dei doveri? Non sarebbe invece il momento di andare con fermezza in direzione esattamente contraria, proprio nell’interesse educativo dei giovani, come ormai invitano a fare stuoli di psicologi e psicoterapeuti, che del disastro educativo in corso vedono gli effetti su tanti genitori in crisi?
Tempo fa, in un editoriale sul “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia si chiedeva se in viale Trastevere si sapesse che “in moltissime realtà scolastiche italiane ormai si assiste ad una vera e propria abolizione di fatto della disciplina”. Purtroppo con questa decisione anche la sua progressiva abolizione di diritto ha fatto un altro grave passo avanti.

Giorgio Ragazzini
(Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità)



[1] Informazioni tratte dal sito dell’Adi, più precisamente dall’articolo Il benessere degli studenti in Pisa 2015 di Marco Bardelli (http://bit.ly/2kJwPor)

giovedì 19 ottobre 2017

VILLARI E IL SUO LIBRO ROSSO (A SCUOLA E A CASA)

 (“Corriere Fiorentino”, 19 ottobre 2017)

Mentre sto scrivendo queste mie riflessioni sulla morte di Rosario Villari, un grande storico e un grande autore di manuali scolastici scomparso poche ore fa, cerco con gli occhi nei miei scaffali la copertina rossa di uno di questi suoi libri.
È uno dei volumi che mi sono tenuto quando, al momento di smettere d’insegnare, ho salvaguardato quei testi che più mi avevano aiutato proprio nell’insegnamento. E devo dire che i manuali del Villari non spiccano tra gli altri libri solo per il colore rosso della copertina, ma per quello che hanno lasciato a me e anche ai miei allievi che hanno avuto la fortuna di studiarvi e che spero non l’abbiano allora rivenduto al mercato dell’usato.
Alla chiarezza espositiva, i manuali di Rosario Villari univano la precisione della documentazione e l’onestà di non cercare come autore «di scomparire» rispetto alla narrazione dei fatti, prendendosi invece, con discrezione, la responsabilità di far capire il suo pensiero rispetto ai grandi eventi della Storia. Capita invece, a volte, che certi autori di manuali vogliano far credere di essere neutrali, ovviamente fingendo una neutralità che non hanno, essendo appunto impossibile essere al di sopra delle parti quando si parla e si scrive di Storia. Villari, nei suoi testi scolastici, riusciva senz’altro a mantenere quel distacco nei confronti dei fatti storici fondamentale per rispettare l’autonoma e libera formazione dei giovani, ma non riusciva, per fortuna, a censurarsi, facendo così traspirare dalle sue pagine la forte passione civile che lo caratterizzava. Come sappiamo, Villari si era dedicato a lungo anche alla politica attiva che lo vide schierato tra le fila del partito comunista. E da attivo e convinto militante comunista, seppe tuttavia sempre mantenere una autonomia di giudizio che non lo rese mai dogmaticamente piegato al partito e alle sue linee ufficiali. Antifascista, si impegnò attivamente nell’immediato secondo dopoguerra per il riscatto delle masse contadine calabresi e in generale contro le arretratezze sociali, culturali ed economiche del nostro meridione. E anche senza aver letto i suoi numerosi saggi dedicati proprio alla questione meridionale, è ancora oggi sufficiente leggere con attenzione le pagine del suo manuale dedicate ai mali del Sud, per rendersi conto che se c'era nel suo pensiero una passione, questa era per la democrazia unita alla speranza che la società italiana fosse davvero più giusta e libera di come lo era in quegli anni, soprattutto nel meridione.
Ecco perché spero tanto che i miei ex allievi conservino ancora i libri di Rosario Villari, perché al loro interno vi potranno ritrovare, non solo il ricordo dei loro anni giovanili, belli o brutti che essi siano stati, ma l’occasione per riflettere su testi che costringevano a pensare e che educavano alla libertà e alla passione civile. Ideali che non terminano con i cicli di studi e che solo i grandi manuali sono in grado di trasmettere. Niente in comune con quei testi di storia che in nome della imparzialità trovano oggi sempre più ampio spazio nelle aule scolastiche e che si caratterizzano per presentare documenti storici di varia natura da interrogare con domande a risposta aperta e a volte perfino chiusa. Come se la Storia la si potesse interrogare con dei quiz aspettandosi da essa perfino delle risposte definitive e non, come ci insegnavano anche i libri del Villari, la conoscenza degli uomini, delle loro contraddizioni, delle loro malvagità, delle loro passioni e soprattutto della loro volontà di migliorarsi e di andare avanti.
Valerio Vagnoli

mercoledì 11 ottobre 2017

UNA LAUREA PROFESSIONALE (PER TECNICI CAPACI)

(“Corriere Fiorentino”, 11 ottobre ’17) – La risposta che sul Corriere della Sera di domenica scorsa l’attore Diego Abatantuono ha dato a Candida Morvillo su com’era la Milano del boom economico è quanto mai efficace nel descrivere la deriva che da allora in poi ha segnato il cammino di parte della nostra società e della nostra scuola.
L’attore dice che allora la città era «bella, e non c’era la sindrome del pezzo di carta. Se sapevi fare qualcosa, stavi bene. Dopo, invece, si doveva studiare per forza e abbiamo avuto generazioni di potenziali elettricisti e idraulici dispersi nel tentativo di diventare ingegneri gestionali». Parole molto in sintonia con quelle dette agli inizi degli anni ‘90 da Umberto Eco che già allora ricordava come i giovani avrebbero pur dovuto decidersi di farsi carico anche di quei mestieri, e con la recentissima diagnosi dell’Ocse sul rapporto tra scuola e mondo del lavoro in Italia; rapporto che si conferma, anno dopo anno, a dir poco disastroso. Infatti molte industrie, grandi e piccole, cercano tecnici o operai specializzati che né le scuole né le università riescono a formare. Le prime perché è stata distrutta gran parte della formazione tecnica e professionale, le seconde perché continuano a proporre indirizzi che garantiscono lauree del tutto inutili, se non dannose, per l’ingresso nel mondo del lavoro. E quando questi indirizzi sono in grado di corrispondere alle richieste dell’economia e delle imprese, può accadere, come fanno pensare certi recenti scandali nel mondo accademico, che di rado venga premiato il merito. Ma anche il mondo delle imprese ha le sue responsabilità, dato che spesso mortifica i giovani talenti con stipendi e carriere che in altre parti del mondo sono ben più appaganti. E non a caso i migliori guardano sempre più all’estero, a beneficio di altre economie. Purtroppo questa situazione sarà confermata, con probabili aggravanti, nei prossimi anni (e rischia di esserlo per decenni) se la classe politica non si deciderà a prendere urgentemente i necessari provvedimenti. Sarebbe per esempio opportuno pensare a una istituzionalizzazione della formazione tecnicoprofessionale post diploma, trasformando gli attuali corsi Its (Istituti tecnici superiori), che a oggi coinvolgono a livello nazionale meno di diecimila giovani, in una sorta di università tecnico-professionale a plurindirizzo, come avviene in molti Paesi europei, dove viene scelta da centinaia di migliaia di studenti. Potrebbe così crescere, come l’Ocse ci chiede, il numero delle lauree, almeno di quelle brevi; e, come accade in Germania, saremmo finalmente in grado di preparare tecnici capaci, alla cui formazione potrebbero contribuire esponenti qualificati del mondo delle imprese e del lavoro, oltre naturalmente ai veri e propri docenti universitari delle discipline tecniche e giuridico-economiche. I laboratori, come già accade nei corsi Its, si troverebbero all’interno delle imprese stesse e questo limiterebbe in maniera consistente i costi. Ne guadagnerebbe l’economia e soprattutto ne guadagnerebbero i giovani, ai quali non basta semplicemente assicurare anni e anni di scuola per sentirci garanti della loro formazione. Una scuola degna di questo nome non è solo quella, pur importantissima, che sa accogliere, ma è anche quella che sa spingere i giovani nella vita con prospettive e attese nei confronti del futuro. Attese che oggi molti non hanno con il rischio, prima o poi, che ce ne chiedano conto. E allora potrebbe essere un grosso guaio, per tutti naturalmente.
Valerio Vagnoli