domenica 30 luglio 2017

PERCHÉ SI STUDIA QUELLO CHE SI STUDIA

“Perché leggiamo ancora la Commedia nell’anno 2017?” A questa domanda Claudio Giunta, concludendo un recente articolo-recensione sul “Sole 24 Ore” a proposito dell’attualità o meno di Dante, propone “una risposta molto più pedestre” di quelle ipotizzate nelle righe precedenti. Che è questa: “Perché così hanno deciso centocinquant’anni fa coloro che hanno scritto i programmi della scuola italiana postunitaria” (su questo saggiamente seguiti, aggiunge, dalle attuali Indicazioni nazionali per il curricolo scolastico). Risposta che me ne ha ricordata un’altra, quella che detti a una mia allieva di seconda media che mi aveva chiesto “Ma a che serve studiare la storia?” Al che tagliai corto dicendo (immagino con un sorrisetto ironico): “A essere promossi in terza media”. Come quasi tutte quelle dello stesso tipo, la sua non era infatti una vera domanda, voleva in realtà dire “la storia non mi piace” (e forse, come conseguenza, non serve a nulla...). Dunque, prenderla alla lettera e lanciarsi in una perorazione della fondamentale funzione di farci-conoscere-il-passato-per-comprendere-il-presente-e-progettare-il-futuro sarebbe stato inutile. Un alunno interessato a una materia non sente il bisogno di sapere a cosa serve, così come un bambino che ascolta rapito una fiaba non chiede il motivo per cui gliela raccontiamo. L’insegnante, quindi, oltre a fare il possibile per interessare i suoi studenti, dovrà però combattere l’idea – figlia di un’educazione preoccupata di accontentare sempre e comunque i figli – che la scuola sia simile a un self service in cui si mangia solo ciò che ci piace, per di più evitando di assaggiare ogni tanto qualcosa di nuovo. Negli sport fatti seriamente l’allenatore impone ai suoi ragazzi esercizi faticosi, però essenziali per una pratica che dia poi soddisfazione. Così la scuola non può (non dovrebbe) fare a meno di esigere un impegno costante in tutte le discipline, attraenti o meno che siano per ciascun allievo. “Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali,” ammonì Barak Obama nel suo grande discorso del 2009 agli studenti, mettendo in evidenza la responsabilità di ciascuno di loro rispetto alla propria formazione.
Ma c’è di più: tutte e due le risposte apparentemente “pedestri” alle domande sull’attualità di Dante e sull’utilità di studiare la storia sottintendono la considerazione dovuta al patrimonio culturale della nazione, come selezionato e aggiornato nel corso del tempo. Un patrimonio, dunque, non intangibile, e anzi inclusivo (è un tratto specifico della cultura occidentale) della capacità di revisione critica delle idee ricevute; ma non va neppure incoraggiata nei ragazzi la pretesa di mettere in discussione quello che la scuola “consegna” alle nuove generazioni. Ogni insegnante è in un certo senso, per conto della collettività, il garante dell’importanza di ciò che insegna. Più ne sarà convinto, più sarà convincente e autorevole per i suoi allievi.
Giorgio Ragazzini

venerdì 14 luglio 2017

L’ANTIFASCISMO? MEGLIO IMPARARLO DA UN VECCHIO POETA

“Corriere Fiorentino”, 12 luglio 2017
Caro direttore,
confesso che rispetto alla proposta di Emanuele Fiano di punire tutti coloro che fanno propaganda fascista ho idee poco chiare. Da sempre antifascista, nipote e cugino di persone massacrate dai nazifascisti, figlio di antifascisti i cui nonni materni nascosero per mesi nella loro abitazione dell’alto Casentino una coppia di anziani ebrei fiorentini, non riesco proprio ad appassionarmi alle polemiche di questi giorni e soprattutto non riesco a farmi un’idea chiara e definitiva su cosa sia più o meno giusto fare. Tuttavia ne scrivo perché rispetto ai temi legati alle dittature, di qualunque colore esse siano, non si può, avrebbe detto mio padre, accantonare il discorso. Anche perché il rischio che seppur sotto altre vesti le dittature a volte ritornino è sempre reale e inoltre è bene ricordare che nel mondo ce ne sono ancora e anche di assai crudeli. Eppure la proposta Fiano non mi convince fino in fondo e penso che rispetto a ideologie così nefaste e sempre minacciose come quelle nazifasciste e comuniste, le risposte debbano essere altre che non quella di creare il nuovo reato di «propaganda di regime». La prima di queste risposte dovrebbe essere quella di impedire la deriva civile di una nazione e di tenerne alta la coscienza recuperando, per dirla con Leopardi, quell’ “onesto e retto conversar cittadino” che pochi esaltano e altrettanto pochi auspicano quale modello da perseguire: non certamente parte del Parlamento o dei politici habitué dei talk show. Troppo degrado intorno a noi e troppo volgo blandito da un vasto ceto politico, parte del quale sembra anche avere paura a misurarsi con lui rendendolo così sempre più potente ed elettore di altrettanto volgo. Forse solo la scuola e poco altro ci potrebbe salvare, se la scuola saprà tuttavia regalare ai ragazzi maestri in grado di creare in loro quelle tensioni civili e morali che solo i veri maestri sono in grado di offrire. Ma ci sono per fortuna, seppur poche, altre risorse. Il bel film di Francesco Bruni, Tutto quello che vuoi, ci offre uno spunto che non possiamo assolutamente tralasciare. Come capita nel film ad alcuni giovani disperati ed emarginati che finalmente crescono e maturano il senso di responsabilità attraverso l’incontro con un vecchio poeta, occorre che anche al di fuori della scuola i giovani possano avere la fortuna d’incontrare adulti e anziani in grado di raccontare qualche squarcio della loro vita e che magari siano ancora in grado di rappresentare valori e aspettative che i giovani, seppur ignorandolo, bramano di sapere. Ma quasi nessuno, anche all’interno delle famiglie, si preoccupa di far loro questo regalo.
Valerio Vagnoli

domenica 9 luglio 2017

RISPOSTA A “TUTTOSCUOLA” SU DON MILANI E L’ABOLIZIONE DELLE BOCCIATURE

Caro direttore,
“Tuttoscuola” si rammarica che dal decreto sulla valutazione sia stato tolto il divieto di bocciare nella primaria, inizialmente presente. E, adottando toni e categorie della Lettera a una professoressa, chiosa: “I nostri parlamentari hanno preferito mantenere la distinzione tra i Gianni e i Pierini, figli dei ricchi, colti e urbanizzati, anziché applicare il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini”.
A parte il fatto che è stata la ministra Fedeli a opporsi su questo punto, è difficile capire i motivi per cui sarebbe essenziale impedire per legge un esito che rappresenta lo 0,4% del totale. A differenza di 50-60 anni fa, sono decisioni eccezionalissime, da prendere all’unanimità e da motivare ampiamente. Sarebbe semmai utile un’indagine sulle ragioni che hanno mosso dei consigli di interclasse, certo non a cuor leggero, a bocciare un alunno.
È naturale che “Tuttoscuola” si appoggi in questo campo all’autorità di don Milani: “Durante l’obbligo scolastico non si può bocciare, si diceva a Barbiana, ma si devono rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla piena fruizione del diritto allo studio”. “Durante” sì; ma alla fine? A pagina 56 della Lettera si trova un passaggio che non viene mai citato. Rivolgendosi a un’immaginaria insegnante di scuola media, i ragazzi di Barbiana dicono che nella scuola dell’obbligo bisogna portare tutti in terza. Ma aggiungono: “È all’esame di licenza che può sfogare i suoi istinti di selezionatrice. Non avremmo più nulla da ridire. Anzi se il ragazzo non sa ancora scrivere farà bene a bocciarlo.” Stando così le cose, sarà pur lecito discutere se e quando sia meglio, nell’interesse del ragazzo, aspettare la terza media o fermarsi prima in caso di gravi carenze.
Anche l’Ocse, prosegue “Tuttoscuola”, “ritiene che la bocciatura come strumento didattico sia costoso ed inefficace. Quanto costa alla collettività un ripetente?” Ma forse dovremmo anche chiederci quanto costano alla collettività le ben più frequenti promozioni immeritate.
In alternativa alla bocciatura, “Tuttoscuola” rilancia poi la personalizzazione dell’apprendimento. Se però una didattica è davvero efficace e in grado di colmare le lacune di chi è indietro, perché si dovrebbe temere la possibilità di bocciare?
Il fatto è che da tempo immemorabile la volontà, la serietà, l’impegno sono stati cancellati dalla pedagogia, sicché il raggiungimento del “successo formativo” è diventato responsabilità esclusiva di una scuola “che non sa motivare”. I ragazzi “svogliati” di un tempo ora hanno un Bisogno Educativo Speciale. Da un estremo all’altro. Ma un bambino, un ragazzo non sono materia plasmabile a piacere, sono soggetti più o meno o per niente collaborativi. E si dovrebbe abituarli all’idea che il successo scolastico dipende anche da loro.
Un altro ingrediente di cui non si parla mai (tanto meno lo fanno i ministri dell’istruzione) è la disciplina. Eppure a Barbiana era ferrea: La vita era dura anche lassù: disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. [...] Per i casi estremi si usa anche la frusta”. E l’Ocse stessa ne ha sottolineato la grande influenza sul livello degli apprendimenti e il positivo impatto sul clima della classe e sull’umore degli allievi[1]. Ci sarebbe quindi da fare una severa autocritica per il lassismo che è stato tollerato e incoraggiato negli ultimi decenni, con l’effetto di buttare al vento una quantità enorme di tempo scuola (quanto ci costa?).
Tra i comportamenti più gravi c’è il copiare a man bassa durante gli esami e le verifiche in classe. “Tuttoscuola” individua la causa nella “cultura selettiva rimasta nei docenti”, che spingerebbe a cercare “scorciatoie per arrivare rapidamente al traguardo” (in altre parole: se non si bocciasse, sarebbe meno utile copiare). Ma la realtà è ben diversa: come ha dimostrato Marcello Dei nel libro Ragazzi si copia - A lezione di imbroglio nella scuola italiana, lo si fa perché il copiare non è abbastanza stigmatizzato e tanto meno punito; e perché non pochi colleghi chiudono occhi e orecchi, quando non si rendono complici attivi dell’imbroglio. Altro che mentalità selettiva: è la sagra del buonismo che si infischia del merito e della perdita di credibilità del sistema scolastico. Don Milani certo non immaginava che gli esami di oggi sarebbero stati spesso simili a quelli auspicati – ma solo per i ragazzi di Barbiana – in chiusura della Lettera a una professoressa. A pagina 111 infatti si legge che alle superiori la selezione è doverosa (“Qui si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri. Si vogliono sicuri.”). Ma a pagina 139 la musica cambia:
 “Ci sarà bene in qualche istituto magistrale qualcuno che ci scriverà: «Cari ragazzi, quelli di voi che vogliono essere maestri venite a dar gli esami quaggiù. Ho un gruppo di colleghi pronti a chiudere due occhi per voi»”.

Un saluto cordiale,
Giorgio Ragazzini

[1] Analisi dei dati PISA 2012, focus 4 e 32.

domenica 2 luglio 2017

«RIMPIANGERÒ LE SFIDE AI RAGAZZI, NON QUESTA SCUOLA SENZA QUALITÀ»

“Corriere Fiorentino”, 2 luglio 2017

Valerio Vagnoli, per sei anni preside dell’alberghiero Saffi, andrà in pensione a settembre dopo 43 anni passati nella scuola 

In 43 anni nel mondo della scuola Valerio Vagnoli ha insegnato dalle elementari alle superiori, dai licei illustri agli istituti di periferia, anche in carcere e in riformatorio. Ha iniziato dal doposcuola in piccoli borghi di campagna e ha concluso la carriera da preside. Ora va in pensione, «appena in tempo, per rimpiangere di non averlo fatto».
Preside, perché questa decisione?
«Sono stanco: la scuola è sempre più vittima di burocrazia insostenibile, come è insostenibile il peso sulle spalle dei dirigenti».
Cosa le mancherà? 
«Mi mancheranno i rapporti con gli studenti, il progettare insieme, vedere i loro miglioramenti, ma anche gli scontri, il richiamarli alle loro responsabilità. Mi mancheranno gli insegnanti, categoria sempre più bistrattata. Non mi mancheranno invece la burocrazia ministeriale e la demagogia che vuole che la carriera dei dirigenti sia condizionata dal successo dei loro allievi: le promozioni aumenteranno ma si abbasserà la qualità».
Lei, che fa parte anche del gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, è sempre stato molto esigente e rigoroso nel rispetto di regole e legge.
«La scuola deve educare alla responsabilità, alla lealtà e alla collaborazione con gli altri, oltre a dare a tutti le migliori opportunità formative. Con i ragazzi sono sempre stato diretto. Hanno trovato la mia porta sempre aperta, ma hanno anche avuto modo d’incontrare una persona che ha cercato di metterli di fronte alle loro responsabilità. Questo mio modo di intendere il ruolo di preside risponde a un’esigenza morale fondamentale: il ruolo imparziale di chi controlla che siano rispettate le regole e punisce chi le viola».
È stato intransigente anche nei confronti degli insegnanti.
«Ho utilizzato ciò che rientra negli strumenti del dirigente per colpire il demerito. Non è ammissibile che ci siano insegnanti incapaci e impreparati: per fortuna sono la minoranza, ma fanno danni».
Com’era la scuola di quarantatré anni fa?
«Dava aspettative, si pensava che potesse riscattare la vita e se non cambiava il destino era comunque un passo avanti rispetto alla formazione dei genitori».
E oggi?
«Questa aspettativa non c’è più, non c’è più entusiasmo. Si è persa la sacralità: certo, gli insegnanti devono rispondere alle famiglie e agli studenti, ma non possono certo essere ricattati dalla società».
Al Saffi è stato preside per dei anni. Quale eredità lascia?
«I progetti di cui vado più orgoglioso sono il ristorante della scuola gestito dai ragazzi e la fondazione La Prova del Nove. Mi sono concentrato sulla formazione professionale, un settore distrutto dalle riforme. La scommessa più bella vinta è stato il manifesto a favore della formazione professionale sottoscritto da 85 colleghi. All’inizio fummo fortemente osteggiati, ma oggi la Regione sta rivedendo la vecchia visione e sperimentando la formazione professionale a quattordici anni. Inoltre ho sempre preteso una scuola esigente e forse anche questo ha contribuito a dimezzare i bocciati, aumentando gli iscritti».
I ragazzi che escono dalla scuola sono preparati?
«Una parte della scuola funziona, perché per fortuna ci sono ancora addetti ai lavori che ci mettono l’anima».
Ivana Zuliani