giovedì 29 dicembre 2016

LA CLASSE NEL CARCERE (STUDENTI E DETENUTI)

(“Corriere Fiorentino”, 29 dicembre 2016)

Il reportage di Alessio Gaggioli sul Corriere fiorentino di martedì scorso (Il compagno di banco? Un detenuto) è stato un’immersione profonda dentro la realtà del carcere di Volterra. Una realtà in cui la vita stessa è costretta dentro perimetri scarni e per qualcuno senza speranza di riattraversarli. Vi si svolgono delle lezioni davvero speciali, dove convivono studenti che la sera se ne tornano a casa e altri “studenti” più grandi che non hanno altra casa se non la cella e l'aula scolastica. Singolare coincidenza: pochi giorni fa dopo trentaquattro anni sono tornato nel carcere di Sollicciano per l’intitolazione di un'aula a un amico, un docente davvero speciale morto prematuramente pochi mesi fa. È il carcere dove avevo insegnato nella sezione femminile quando ero poco più di un ragazzo. Oggi si aggiunge a quell'emozione questo reportage struggente che ci ricorda come tutti si può contribuire a cambiare in meglio la vita delle persone, anche dentro le mura di un carcere. E dentro quelle di Volterra la vita può cambiare in meglio anche per gli studenti esterni, quei ragazzi che avevano abbandonato la scuola e che ritrovano ora la loro passione in compagnia dei carcerati dalla vita distrutta per aver distrutto a loro volta e per loro colpa chissà quante altre vite.
Naturalmente le convivenze, anche episodiche, tra detenuti e giovani studenti esterni devono essere costantemente monitorate e sostenute anche sul piano psicologico. Mi spiego meglio: la profonda valenza umana e formativa legata a questa esperienza non deve farci perdere di vista i rischi che dietro essa si possono nascondere. Quasi quarant’anni fa un gruppo giovanile parrocchiale fu autorizzato a condividere momenti del loro tempo libero con i ragazzi del riformatorio in cui insegnavo; e purtroppo accadde che un paio di questi “esterni” prendessero una brutta strada avendo subìto l’influenza di alcuni giovani delinquenti. Certi rischi si possono correre, conoscendo quanto sia a volte totale la disponibilità dei giovani a immedesimarsi nel dolore degli altri, rimanendone poi vittime inconsapevoli. Sono certo che i responsabili del bellissimo progetto del carcere di Volterra hanno messo in conto questa possibilità e che non faranno mancare gli opportuni momenti di riflessione a questi ragazzi.
A parte questo, l'esperienza dimostra quanto sia fondamentale una scuola che educhi al lavoro; e solo chi ha pregiudizi sociali può pensare che il lavoro manuale non valorizzi la sfera dell'intelligenza, che invece si manifesta e si realizza anche attraverso l'esperienza pratica. Chissà quanti ragazzi riusciremmo a preservare dall’insuccesso scolastico se non li umiliassimo costringendoli a frequentare una scuola che non risponde alle loro attitudini. E chissà quanti non finirebbero in carcere se si fosse in grado di dar loro, attraverso il lavoro, una motivazione e una speranza!
Intanto rallegriamoci per questa bella realtà volterrana – e volterriana – e ricordiamoci dei bei versi del Manzoni che ammonivano chi aveva ricevuto “in copia”, cioè in abbondanza, a donare poi con volto amico. I ragazzi che vanno a scuola tra i carcerati ci ricordano, con il Manzoni, che l'abbondanza non è da intendersi soltanto sul piano economico ma anche umano. E questo patrimonio, per fortuna, ancora abbonda dalle nostre parti: anche nei giovani.
Valerio Vagnoli

mercoledì 21 dicembre 2016

BILANCIO DI UNA RIFORMA CONTESTATA

L'analisi di Gaspare Polizzi sul Corriere fiorentino di mercoledì scorso fotografa perfettamente l’esito della politica scolastica attuata dal governo Renzi: una politica che pur imprimendo per certi aspetti una svolta alla scuola italiana (80.000 immissioni in ruolo, alternanza scuola-lavoro, notevoli somme per aggiornamento dei docenti) non ha dato tuttavia i frutti che il governo si attendeva, anche in termini di consenso. Qualsiasi misura ha trovato la netta ostilità, quasi “a prescindere” - verrebbe da dire - da parte del mondo scolastico, in primis dei sindacati, che peraltro non hanno poche responsabilità per la condizione disastrosa della nostra scuola. Ma ciò non annulla le responsabilità di Renzi e in primis del Ministro Giannini. Di fronte a un' immissione in ruolo così massiccia di docenti, molti dirigenti, tra cui chi scrive, avevano segnalato il rischio del caos, come è poi puntualmente avvenuto. Come Gruppo di Firenze abbiamo più volte sottolineato le controindicazioni della scelta di premiare i docenti “migliori”, che avrebbe finito col demotivare altri docenti pur bravi, ma poco interessati ad occuparsi di progetti e di organizzazione della scuola, due dei criteri frequentemente utilizzati per assegnare i “bonus”. A riprova, pochi giorni fa, dopo un collegio dei docenti in un istituto comprensivo che dirigo come reggente e in cui si era parlato del bonus per il merito, sono stato avvicinato in presidenza da una docente che si è lasciata andare a un pianto dirotto, perché a pochi anni dalla pensione non accettava di non comparire nell'elenco dei “premiati”, dopo aver sempre fatto il suo lavoro con passione e, aggiungo io, grande capacità. Molto più produttivo sarebbe invece poter più facilmente sanzionare il demerito, affinché gli insegnanti che fanno il proprio dovere non si vedano trattati come quelli inadeguati. Ma da quest’orecchio il ceto politico non ci sente.
L’alternativa alla scelta “premiale” sarebbe quella di costruire una vera e propria carriera per i docenti, in base a concorsi e analisi dei curriculum per  assegnare ruoli di responsabilità all’interno della scuola e anche al di fuori, con distacchi presso enti di ricerca, o negli uffici periferici dell’amministrazione scolastica o all’università. Distacchi sui quali è particolarmente urgente esigere trasparenza riguardo ai criteri con cui si viene scelti e anche stabilire dei limiti di durata per il distacco, evitando di premiare l’appartenenza politica o sindacale invece del merito. Se la fretta nel voler trasformare il mondo della scuola è stato forse il maggior errore del governo Renzi, il suo maggior merito è stata l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, l’innovazione senz'altro più dirompente degli ultimi decenni, andata a regime in tutte le scuole in virtù di un lavoro paziente, certosino e perfino umile da parte di coloro che al Ministero se ne sono per anni occupati. Non c'è zona del Paese che non sia stata battuta a tappeto per confronti, dibattiti a volte accesi anche rispetto alle responsabilità di parte del mondo imprenditoriale. E c'è da confidare che questa importante novità possa davvero contribuire a cambiare la mentalità di molti giovani che, come diceva anni fa Umberto Eco, dovranno pur decidersi ad ammettere che esiste anche il lavoro manuale.
Valerio Vagnoli
("Corriere Fiorentino", 20 dicembre 2016)

venerdì 9 dicembre 2016

"COSA CHIEDIAMO ALLA SCUOLA OGGI?" UN RICORDO DI GIORGIO ISRAEL

Si è tenuto martedì scorso all’Accademia delle Scienze di Bologna un incontro (intitolato “Cosa chiede la scuola oggi?) in memoria di Giorgio Israel a un anno dalla sua morte, con interventi di Sergio Belardinelli, Angelo Panebianco e Irene Enriquez, oltre che della moglie Ana Millan Gasca. Abbiamo voluto essere presenti, perché Israel è stato senza dubbio un fondamentale punto di riferimento per chi come lui aveva un’idea di scuola lontana dal main stream pedagogico-ministeriale, che tanti guasti ha provocato e tuttora continua a produrre a generazioni di studenti italiani. Con lui abbiamo condiviso molte idee e molte battaglie e l’indignazione che in lui suscitavano le sciagurate politiche scolastiche che, salvo qualche rara eccezione, si perpetuano da un ministro dell’istruzione all’altro.
Angelo Panebianco ha tra l’altro ricordato l’insistere di Israel sulla profonda differenza tra informazione e conoscenza, perché la seconda, a differenza della prima, implica metodo, approfondimento e quella strutturazione logica delle nozioni senza la quale non c’è vera cultura. Controcorrente anche il suo giudizio sui diversi segmenti dell’istruzione. La sua critica, infatti, non si appuntava prevalentemente sulla scuola media, secondo il luogo comune – contraddetto dai dati e dallo stesso Invalsi -  del “buco nero” del sistema istruzione. Era invece la scuola elementare ad aver perso qualità con l’introduzione del modulo e l’abbandono del maestro unico.
Nel suo ricordo di collega, ma soprattutto di carissimo amico, Sergio Belardinelli ha ricordato alcune delle fumisterie didattico-pedagogiche contro cui Israel più frequentemente scagliava i suoi acuminati strali, prima fra tutte l’insensata contrapposizione di conoscenze e competenze, da anni vero e proprio totem del pedagogicamente corretto. Altro oggetto degli strali il mantra imparare a imparare, cioè di un’impossibile autonomia del metodo rispetto agli ambiti disciplinari. La verità è che solo imparando qualcosa si impara a imparare, avendo cioè un oggetto dell’apprendimento a cui dedicare interesse, impegno, lavoro. I contenuti, dunque, le discipline devono rimanere al centro della cultura da trasmettere alle nuove generazioni. Come ha sottolineato Belardinelli, la relazione con gli allievi, se imperniata su un reale coinvolgimento del docente nella sua materia, educa, insegna a vivere, insomma forma anche al di là dello specifico disciplinare senza bisogno di prediche. Una realtà di cui molti possono essere testimoni in base alla loro storia scolastica.
Israel era un uomo di grande cultura, ma – ha ricordato Belardinelli – di fronte alla virale diffusione di queste sciocchezze era solito invocare l’arma del buon senso. Crediamo che la grande maggioranza degli insegnanti sia d’accordo con lui.
Un intervento di Giorgio Israel sul sottosegretario Faraone.