Pubblicato su “ilsussidiario.net”,
28 novembre 2019*
All’inizio di Insegnanti, il bel libro autobiografico e di riflessione sulla
scuola di Roberto Contu, c’è la sedia lanciata da uno studente verso un
compagno davanti al costernato docente al suo esordio nell’insegnamento. Poi
“le due ore assolutamente più lunghe e interminabili” della sua vita, il
ritorno a casa, la moglie che lo guarda stralunata, la convinzione di non
essere tagliato per insegnare. Ma è solo un flashback.
L’autore (docente di italiano e storia negli istituti superiori) non solo
decide di restare nella scuola invece di dedicarsi alla ricerca universitaria,
ma diciassette anni dopo può dire che quella scelta la ripeterebbe “settanta
volte sette”.
Un lieto séguito che da solo può
incoraggiare i colleghi (sicuramente numerosi) che si trovino oggi ad
affrontare analoghi inizi di “puro e adamantino caos”. Contu però nella sua
“lunga chiacchierata” ci propone un’idea molto esigente dell’insegnamento, a
cominciare dalla necessità di studiare in modo permanente e addirittura
“forsennato”; che è tra l’altro una condizione necessaria (ma non sufficiente:
ne vengono elencate molte altre non meno importanti) perché un insegnante possa
considerarsi anche un intellettuale.
Molta attenzione e molto sforzo di
comprensione sono dedicati nel libro al mondo degli allievi, che l’autore vede
cambiati non solo rispetto al tempo in cui era allievo lui stesso, ma anche nel
corso della sua esperienza di insegnamento, soprattutto in rapporto
all’evoluzione delle tecnologie che i ragazzi si trovano tra le mani. Il modo
di capire e di apprendere della “generazione Zero”, quella nata intorno
all’anno duemila, agli occhi di Contu sembra “segnare un punto di non ritorno”
rispetto a “un modello di trasmissione intimamente deduttivo, concettuale,
sequenziale”. In parole povere l’ipotassi, cioè il pensiero organizzato in modo
prevalentemente gerarchico, nei giovani cede sempre più il passo “alla
paratassi delle connessioni multiple”. Di conseguenza si creerebbe la necessità
di “una didattica modulare, autoconclusiva a ogni passo”, in quanto “più
aderente al tempo presente”. Il dibattito è aperto, come suol dirsi; apertissimo
e complesso. Si tratta di capire se questo slittamento è del tutto inevitabile,
se è invece possibile un serio negoziato tra le nuove tendenze e il
tradizionale modo di apprendere o se, infine, la scuola deve essere il luogo di
una conservazione – critica ma determinata – del pensiero “ipotattico”. La
domanda che ci si deve fare è: le nuove generazioni, uscendo da una scuola
“paratattica”, saranno in grado di capire la complessità del reale, una
capacità già oggi poco di moda? E qui peserà l’inerzia - o l’indifferenza –
finora dimostrate da chi governa la pubblica istruzione rispetto alla necessità
di studiare sul campo la scuola com’è veramente, lasciando perdere le astratte
proclamazioni nuoviste. Per parte sua Contu sembra non avere dubbi: “Non è vero
che i ragazzi sono peggiorati: semplicemente capiscono e imparano in modo
diverso”.
La curiosità non superficiale per il
nuovo non fanno però di Contu un “nuovista” acritico. Spicca anzi a metà del
libro il capitolo dedicato all’Elogio
della lezione frontale, bestia nera dei tanti che appioppano volentieri la
qualifica di “laudatores temporis acti”. Contu, che pure auspica il possesso di
una molteplicità di approcci, la considera “la pietra angolare del mestiere”,
con gli allievi disposti all’antica e il professore munito solo di voce e di
gessetto. Per un motivo molto semplice:
“Io so che i risultati migliori a scuola li ho ottenuti e li ottengo tuttora
con lezioni frontali”. Purché, aggiunge, mi limiti ad alcuni argomenti, “quelli
che conosco molto bene”. Con un criterio-guida valevole con ogni metodologia:
bisogna sapere 1000 per trasmettere 10.
Ma Insegnanti indica anche altri tratti della professione che i
docenti dovrebbero conservare o recuperare nel solco della tradizione: la
centralità del proprio ruolo nell’apprendimento (forse in polemica implicita
con l’idea dell’insegnante “facilitatore”); la giusta distanza fra chi insegna
e chi impara, anche se non “siderale” come un tempo (no quindi al modello del
professor Keating nell’Attimo fuggente,
no al messaggio “Ehi, io sono come voi”, insomma niente fobia dell’alterità fra
docente e allievo); infine il confronto, necessario anche se problematico, con
il canone letterario. Su questo il libro è in parte anche un utile vademecum
didattico. Contu ci fa infatti seguire ora per ora, naturalmente a grandi
linee, lo svolgimento di un’unità didattica su Petrarca; e poi, nel capitolo spiritosamente
intitolato Portare a spasso il canone, plana
sul programma del triennio indicando – sulla base di un’ormai lunga esperienza
– quali autori e quali argomenti “reggono” nel confronto con la classe, quali
(pochi) “crollano” irreparabilmente e quali si possono invece recuperare
tenendo conto delle odierne sensibilità giovanili.
Un cenno infine al capitolo Autorità, autorevolezza, autoritarismo. Dopo
avere elencato le caratteristiche personali che conferiscono autorevolezza,
Contu conclude che gli insegnanti hanno autorità in quanto sono autorevoli –
una condizione che si può anche acquisire lavorando su sé stessi. Questo è senz’altro
vero, però l’autorità non è solo il riflesso del
prestigio conquistato sul campo, prima ancora è la legittimazione che la
società assegna comunque al ruolo di insegnante. Riguarda o dovrebbe
riguardare, quindi, tutti i docenti. Un tempo anche l’insegnante mediocre
veniva rispettato, mentre le spinte antiautoritarie post sessantotto hanno
volentieri confuso l’autorità e l’autoritarismo, cioè con il suo uso ingiusto,
promuovendo l’idea che maestri e professori dovrebbero essere tutti
“carismatici”. Un’utopia, probabilmente, anche per il selezionatissimo corpo
insegnante finlandese, figuriamoci per quello italico, che viene via via
integrato da nuovi docenti spesso senza alcuna verifica della loro
preparazione. È invece ragionevole pretendere (anche nell’interesse
educativo dei ragazzi) che tutti gli insegnanti nel loro complesso siano
sostenuti da un clima di serietà e di rispetto delle regole che spesso manca;
ed è invece un fattore fondamentale dell’apprendimento.
Giorgio Ragazzini
1 commento:
Se la lezione è una conferenza o una predica, non dubito che l'insegnante talora possa anche parlare, ma gli alunni devono essere educati soprattutto a leggere non ad ascoltare.
Y
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