L’annuale Rapporto dell’Istituto Toniolo
sulla condizione dei nostri giovani conferma ancora una volta, rispetto a
quella di altri Paesi europei, un dato davvero sconfortante.
E cioè l’alta e sempre più insostenibile
percentuale dei cosiddetti Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono
impegnati nello studio o nel lavoro o in percorsi formativi. In Italia si
attesta al 26% rispetto alla media Ue del 15,6%. Soprattutto si conferma come
questi giovani provengano in maniera pressoché totale da famiglie meno abbienti
soprattutto del Sud. Il timore, direi quasi la certezza, è quello di vedere
questi numeri, che corrispondono a oltre 2 milioni di giovani, crescere
inesorabilmente anche nei prossimi anni.
Uno dei motivi di questo pessimismo deriva
dalla recente revisione degli istituti professionali. Ci aspettavamo che il
ministero finalmente ponesse almeno qualche rimedio al loro progressivo
snaturamento. Invece, dopo un anno di lavoro di una commissione ad hoc, si è
dovuto constatare come la situazione sia addirittura peggiorata. Ci si è
limitati infatti a un intervento di pura facciata che lascia più o meno le cose
come erano (troppe materie-poca pratica), salvo aggravare il carico burocratico
delle singole scuole che è, oggettivamente, al limite del collasso.
La mobilità sociale, che è un caposaldo di
qualsiasi società liberale e anche la miglior garanzia perché le democrazie si
mantengano tali, va, per i meno abbienti, estinguendosi. Al pari, verrebbe da
dire non a caso, della qualità delle nostre scuole professionali. A
dimostrazione di ciò, si registra la progressiva nascita, soprattutto in alcuni
indirizzi professionali, di corsi privati post-diploma, con lo scopo di formare
sul serio al lavoro i tanti giovani che dopo cinque anni di scuola sono ancora
lontani dal possedere le competenze necessarie per poter svolgere una
professione; quando non si tratta addirittura di doverli correggere dal punto
di vista del comportamento e dell’educazione. Il che rende spesso ancora più
difficile e faticoso a quell’età recuperarli a un lavoro realmente qualificato,
al senso di responsabilità e alla consapevolezza dei loro doveri, beninteso
unita a quella dei propri diritti. Senza contare che, in mancanza di un
compiuta professionalità — che comprende la necessaria maturazione umana — i
ragazzi rischiano, come alternativa alla disoccupazione, di finire alle
dipendenze di datori di lavoro inaffidabili e disinteressati a investire sul
cosiddetto capitale umano.
Ovviamente questi corsi sono a pagamento e
perciò non aperti a chi non può permetterseli. Insomma, il sistema si avvita
sempre di più e gli «ultimi» saranno inesorabilmente esclusi dalla possibilità
di veder cambiato in meglio il loro destino, grazie anche a scuole
professionali e tecniche che da decenni sono progressivamente venute in gran
parte meno alla propria vocazione. Scuole che affogano inoltre in una
burocrazia oramai elefantiaca, spesso nella retorica di una pseudo-inclusione e
nella necessità di dare occupazione a una miriade di precari storici, arrivati
alla cattedra senza più entusiasmi e passione, che sono per la qualità della
scuola elementi imprescindibili. Come è imprescindibile non rinunciare a darle
un senso. Purché non sia quello del parcheggio.
Valerio Vagnoli
“Corriere
Fiorentino”, 11 aprile 2018
7 commenti:
La scuola pubblica affonda quella privata avanza.Colpa anche stavolta dei Grillini?
La creazione di un numero enorme di drop out è risultato di scelte politiche precise ed è stata considerata per anni un prezzo accettabilissimo. Solo un terrorista poteva osare qualche contestazione.
Qualcosa non va?
Ma qui nessuno avanza. Siamo tutti nel fango.
L'unica alternativa è stata abbassare il livello di tutti e dichiarare malattie inventate. Non hanno escogitato altro.
Per quanto riguarda i conteggi sull'eccesso di cosiddetti NEET.
A parte il fatto che conteggiare nella stessa fascia demografica persone che vanno dai 15 ai 29 anni (come se le loro esigenze di vita e le loro possibilità di azione personale fossero tutte paragonabili) mi pare poco significativo.
Si ammetterà che un 17enne che ha smesso di andare a scuola senza nemmeno prendere una qualifica professionale pratica rappresenta un caso sociale diverso rispetto a un 27enne disoccupato dopo una laurea e un master, o a una ragazza 25enne che si è sposata giovane e che è già una madre di famiglia.
Detto questo, ci metterei dentro due effetti importanti che alterano il quadro.
Uno: negli strati sociali più economicamente depressi, io penso che molti di questi giovani non siano realmente "inattivi", ma che lavorino in nero. Domestiche, baby sitter, facchini, fattorini, aiutanti in botteghe artigiane o in mercati ambulanti, braccianti agricoli a giornata, e tutto il resto del pantano sommerso che ben si conosce. Il che è certo una cosa negativa, e che deve essere combattuta, ma non si può dire che dipenda dal sistema educativo dal quale sono usciti.
Due: in contesti socioeconomici di livello alto (e non parlo di gente "ricca", ma anche di piccolissima ex-borghesia), io penso che, anche al netto di tutte le crisi degli ultimi anni, una buona parte di responsabilità sia da attribuire alle famiglie, che sono molto più bendisposte, rispetto a 20 o 30 anni fa, a mantenere per anni un figlio adulto, in condizioni di relativo benessere individuale, per cui questo è poco incentivato a prendere iniziative per sbloccare la propria situazione.
Diciamocela spiccia: 30 anni fa, se il ragazzo rifiutava di continuare gli studi, la famiglia lo mandava a lavorare a calci nel didietro. E non solo la famiglia bisognosa, ma anche la famiglia economicamente solida, che non aveva tutto questo bisogno urgente di qualche soldo in più, e che avrebbe potuto tranquillamente mantenere il figlio agli studi, se questo avesse voluto studiare.
E' vero che oggi, in quelle condizioni, si troverebbero solo lavori modesti e sottopagati, ma era così anche prima... solo che in passato, come primo passo per iniziare, erano considerati molto più accettabili che stare a casa a non fare nulla.
E comunque, al figlio adulto ancora mantenuto dai genitori, si imponevano determinate regole di vita comune, di responsabilità familiare e di limiti nei consumi, che alla lunga gli stavano strette, e lo incentivavano a darsi una mossa per rendersi indipendente.
Se adesso, per un ventenne che non studia e non lavora, l'alternativa è quella di non fare nulla, però ritrovandosi tutto lavato, stirato e cucinato, avendo la massima libertà di movimento personale, e ampia disponibilità di oggetti di consumo modaioli e spesso superflui, con i genitori che gli pagano vacanze, sport, divertimenti, mezzi di trasporto e gadget tecnologici, e che non gli richiedono nemmeno un minimo di collaborazione alla gestione domestica, mi pare ovvio che la spinta a darsi una mossa sia rinviata il più possibile.
Evidentemente, al netto di tutte le crisi recenti, c'è ancora un livello sufficiente di piccolo benessere diffuso (magari illusorio, e destinato a sgonfiarsi in pochissimi anni, ma ancora percepito come normale) da indurre le famiglie a comportarsi così.
Ma anche qui, non si può dire che dipenda dal sistema scolastico...
Ciao
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