venerdì 1 giugno 2018

A SCUOLA DI PATRIA


L’editoriale di Paolo Armaroli sui simboli dell’unità nazionale (Corriere Fiorentino del 30 maggio) mi sollecita a prendere in esame, in una questione certamente molto complessa, qualche responsabilità della scuola, che forse negli scorsi decenni ha contribuito a svalutare l’idea, oltre che la stessa parola, di Patria. Un’idea che solo da pochi anni si sta faticosamente rivalutando grazie soprattutto all’impegno del Presidente Carlo Azeglio Ciampi e in seguito anche a quello di tutti i suoi successori, compreso l’attuale Presidente, Sergio Mattarella. Non sfugge, tanto per cominciare, l’assenza pressoché totale degli studenti nelle celebrazioni delle feste nazionali, come nelle cerimonie in cui si ricordano, nei cimiteri di guerra, le migliaia e migliaia di loro quasi coetanei venuti da ogni parte del mondo a combattere e a morire per la nostra libertà. Per non parlare delle bandiere esposte, peraltro non sempre, sulla facciata delle scuole, spesso cotte dal sole e sdrucite; oppure di come siano spesso viste in maniera ostile, a volte anche dal personale educativo, le forze dell’ordine nel mondo scolastico, soprattutto se nell’esercizio delle loro funzioni. Inoltre, cosa che forse molti non sanno, da tempo i programmi scolastici (espressione, certo via via da adeguare ai tempi, del patrimonio culturale della Nazione da consegnare ai giovani) hanno lasciato il posto da anni alle Indicazioni nazionali, che in sostanza autorizzano docenti e scuole a ritagliarsi liberamente un proprio programma, qualche volta anche in modo tendenzioso o dispersivo. Indimenticabile una collega livornese, assai apprezzata allora in certi ambienti culturali e pedagogici, che per anni ha fatto leggere al posto dei Promessi Sposi le memorie di un calciatore ideologicamente impegnato ma, ahimè, dalle scarsissime abilità letterarie.
In parte anche per questo, è ormai impossibile, salvo in alcuni licei e non sempre in maniera adeguata, poter verificare gli studenti all’esame di maturità su un qualsiasi canto della Divina Commedia e riscontrare nei programmi di studio un filo conduttore basato su temi di carattere storico e civile. Lentamente, con Dante, anche il Foscolo o lo stesso Leopardi scompaiono con tutta la loro straordinaria passione civile. Per non parlare poi di Nievo, Carducci, Saba e di altri classici come Tozzi e Fenoglio, che stentano non solo a essere riconosciuti come tali, ma perfino a essere individuati dai ragazzi come narratori.
A tutto questo si aggiunga la perdita di prestigio che la scuola ha patito di fronte a gran parte dell’opinione pubblica, legata anche al fatto di venire percepita come poco esigente sia sul piano della preparazione culturale che su quello della maturità personale (senso di responsabilità, rispetto degli altri, lealtà, spirito civico). E invece abbiamo tolto l’ora di Educazione civica — da Firenze è partita la battaglia per reintrodurla come materia obbligatoria — sostituita con un numero esorbitante e crescente delle cosiddette educazioni (alla salute, all’inclusione, all’uso corretto dello smartphone, all’imprenditorialità, alla diversità...) e con un alternarsi continuo dei progetti più vari. Una miriade di progetti che hanno finito col togliere alla scuola anche la sua identità, con la conseguente perdita della propria credibilità e importanza, ma anche di quella dello Stato che essa rappresenta. Anche così si fa deperire l’idea di Patria, cioè dell’appartenenza a una comunità solidale; e senza una Patria scivola via la stessa consapevolezza di essere cittadini e piano piano, forse senza rendercene conto, si potrà arrivare a confondere, come cantava Giorgio Gaber, la condizione di libertà obbligatoria con quella della vera libertà.
Valerio Vagnoli
(Editoriale del “Corriere Fiorentino”, 1° giugno 2018)

2 commenti:

Io Non Sto con Oriana ha detto...

Durante gli anni in cui i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana hanno buttato alle ortiche un secolo di lotte sociali e sindacali in cambio di qualche straccio firmato nessuno si curava minimamente degli emblemi del potere.
Ha compiuto la sua ascesa nel panorama politico anche una formazione apertamente secessionista per la quale il drappo verde, bianco e rosso a bande verticali di uguali dimensioni che costituisce la bandiera di quello stato poteva trovare costruttiva collocazione nei servizi igienici domestici.
Si tratta della stessa formazione politica da cui il governo in carica trae nientemeno che il ministro degli affari interni.
In buona sostanza, lo stato che occupa la penisola italiana è l'unico esempio di compagine statale al mondo in cui chi ha coltivato per decenni idee che nelle realtà normali portano ad un'accusa di alto tradimento può trovarsi a legiferare su questioni vitali. In effetti, non esiste legge che impedisca di affidare a una cooperativa di volpi la custodia di un pollaio.
Adesso che l'ascensore sociale è inchiodato da decenni e che la maggior parte della popolazione è praticamente alla sussistenza, si vorrebbe ricreare una rete sociale "nazionalista" che si è fatto di tutto per distruggere non in quanto tale, ma perché il liberismo portato avanti dai suoi sostenitori con un entusiasmo da rivoluzione permanente imponeva la distruzione di ogni legame sociale.
Ognuno per sé, no time for losers. Unici comportamenti leciti, quelli di consumo.
Ora che la weltanschauung liberista è realtà quotidiana anche per chi affatto la desiderava, si ha il coraggio di lamentarsene?

Altra cosa.
Lo stato che occupa la penisola italiana è l'unica realtà al mondo dove l'uso corretto della consecutio temporum o il riferimento al delta delle equazioni di secondo grado nel corso di una conversazione purché sia possono portare all'aggressione fisica da parte di qualche mangiaspaghetti ben vestito che fa "l'imprenditore di se stesso" dopo aver "studiato alla scuola della vita".
Ci vuole un bello stomaco, per tollerare anche solo la vista dei simboli di un aggregato di questo genere.

Tortora Giuseppe ha detto...

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