Il pensiero storico, Rivista internazionale di storia delle idee, diretta da Danilo Breschi, nel suo numero 7 (giugno 2020), che ha come filo conduttore Conservatorismi vecchi e nuovi, pubblica tra gli altri il saggio di Valerio Vagnoli Lo stato attuale della scuola e qualche proposta. Lo pubblichiamo anche sul nostro blog per gentile concessione della direzione.
Da
qualche anno nel nostro Paese il dibattito intorno ai problemi dell'istruzione
è quasi sempre stimolato da episodi di cronaca nera, che purtroppo nel tempo si
stanno moltiplicando all'interno delle scuole. Sul sistema scolastico, invece,
e su come esso debba essere seriamente riformato e riqualificato, la classe
dirigente evita da molto tempo qualsiasi serio confronto, forse per il timore
di doversi scontrare con i “poteri forti” che da decenni gestiscono realmente
la nostra politica scolastica. Mi riferisco innanzitutto ai sindacati e a tutto
il mondo a essi collegato e in gran parte ispirato all'ideologia
catto-comunista ampiamente penetrata tra i pedagogisti. Una sorta di connubio
tra un pensiero cattolico quanto mai banalizzato e un altrettanto banalizzato
pensiero marxista d’impronta sociologicamente paternalista e populista. Questo
amalgama politico-culturale ha cominciato a prendere forma a partire dalla fine
degli anni '60, trovando poi nei cosiddetti Decreti delegati del 1974 la sua
piena istituzionalizzazione. E' attraverso questi decreti che, tra l’altro,
fanno ingresso nella gestione della vita scolastica anche i genitori. Col tempo
tali rappresentanze, salvo che nella scuola primaria, si sono quasi del tutto
dileguate. Sono infatti sempre meno quelli che accettano di candidarsi, spesso
per rappresentare pochi altri colleghi o sé stessi e gli interessi del proprio
figlio. Tuttavia, da chi gestisce la scuola tali residui di rappresentanza non
sono messi in discussione né si accenna a farlo, tanto rimane comunque forte e
all'occorrenza agguerrito il partito dei genitori. Questi evidentemente servono
ancora per mantenere simbolicamente il controllo sul “territorio” e soprattutto
per sorvegliare i docenti e le loro eventuali “malefatte”, nella scia delle
polemiche denunce di Don Lorenzo Milani, fatto poi assurgere dalle forze politiche
della sinistra a paladino della “nuova scuola “. Scuola che sul piano
elettorale era ed è capace di assicurare milioni di voti, se si considera,
oltre agli insegnanti, anche il personale non docente con relativo “'indotto”
parentale. Voti tuttavia che hanno poi iniziato a prendere anche altre
destinazioni, forse perché buona parte di quel mondo ha cominciato a prendere
atto della miserevole condizione in cui è ridotto (o si è colpevolmente fatto
ridurre): una sorta di proletariato del pubblico impiego.
Da
allora, da quando cioè l'ideologia catto-comunista si impossessò della scuola
pubblica contribuendo sempre più a darle un indirizzo populista e a spingerla
verso l'appiattimento, abbiamo alla fine costruito un sistema scolastico di un
classismo forse addirittura peggiore di quello vecchio. Lo si è fatto
abbassandone sempre più il livello e demotivando progressivamente tutte le sue
componenti: insegnanti, studenti e famiglie. Lo si è fatto, soprattutto,
bandendo l’idea di merito sia per gli studenti che per i docenti, quasi che
questo termine fosse espressione della sopravvivenza pericolosa dell'Italietta
classista di stampo liberale, fascista o democristiano. L'importante, per gli
“innovatori”, era cancellare l'autoritarismo del passato, rinunciando, però,
anche a ciò che di buono quella scuola aveva, malgrado tutto, costruito. Così
la nuova scuola si è andata caratterizzando per la progressiva eliminazione
delle bocciature nel primo ciclo e di quasi tutti gli esami. I due rimasti,
perché previsti dalla Costituzione (terza media e maturità), sono prossimi
all'inutilità perché si è pensato solo a semplificarli fino a renderli quasi
del tutto banali. Le ripetenze rimangono invece numerose soprattutto nei primi
due anni delle superiori. Avendole infatti essenzialmente bandite alla primaria
e alle medie e non avendo saputo o voluto cercare altre strategie formative per
garantire a tutti una sufficiente preparazione di base, prima o poi il conto da
pagare arriva ed è naturalmente più salato per tutti coloro che provengono da
condizioni culturalmente ed economicamente svantaggiate. È assai probabile che
nel giro di pochissimi anni si troverà la formula per non bocciare più neanche
nel ciclo superiore. Avremo finalmente un dato “scientificamente” ineccepibile
sui progressi della lotta alla “dispersione” da poter vantare di fronte ai
partner europei. E non è escluso che anche alle superiori, come è già avvenuto
nel primo ciclo, per facilitare il “successo formativo” si cerchi di convincere
i docenti che sono in fondo veniali (come sostengono alcuni linguisti
“democratici”) gli errori ortografici, sintattici e lessicali più gravi dei
nostri studenti, purtroppo sempre più frequenti. Il fenomeno non si ferma,
d’altronde, al secondo ciclo di studi. Molte facoltà universitarie, anche fra
quelle umanistiche, sono da anni costrette a organizzare per le matricole corsi
di recupero di italiano, che però non impediscono che gli sfondoni raggiungano
perfino le tesi di laurea (1). Sarà un caso se la percentuale dei
laureati italiani è tra le più basse d'Europa?
Insomma,
la scuola italiana è diventata nel tempo sempre più un patrimonio della
cosiddetta ideologia buonista; il potere dei più buoni, per cantarla con
Giorgio Gaber, ha determinato molte scelte in fatto di politica scolastica e
negli ultimi decenni è veramente impossibile poter individuare un ministro
realmente interessato a prendere misure destinate a ridare serietà e
credibilità alla scuola, per esempio attraverso la valorizzazione del merito,
dell'impegno e del rispetto delle regole. Basti pensare che non pochi addetti
ai lavori si schierano altezzosamente contro chi invece sostiene il valore
formativo del voto in condotta o delle stesse sanzioni disciplinari. Il
berlingueriano Statuto degli studenti burocratizza a tal punto il procedimento
sanzionatorio da rendere quasi impossibile comminarle. Vale la pena di
ricordare che il dibattito sul ripristino o meno del voto di condotta e
sull’opportunità di farlo contare ai fini della valutazione generale, coinvolse
almeno due ministri e durò ben due anni. Tra coloro che presero posizione vi
fu, attraverso le pagine di Repubblica, Mario Pirani, tra le poche “grandi
firme” del nostro giornalismo a occuparsi per anni costantemente e lucidamente
di scuola. A tale proposito egli scrisse: “Bisogna tornare a dare un senso alle
cose e capire quanto sia assolutamente indispensabile ridare a masse di
adolescenti «spavaldi e fragili» la sensazione palpabile dell´esistenza di
limiti di contenimento e di regole che nell’ambito di una comunità di studio e
di formazione fissino gli spazi della loro libertà e del rispetto individuale e
collettivo” (2). Occorre ricordare
che Pirani parlava a un contesto socio-pedagogico all'interno del quale c'era e
forse c’è ancora chi sosteneva che nei casi di bullismo occorreva
preoccuparsi innanzitutto di recuperare i bulli ignorando perfino i
diritti delle vittime. Ai fini di una sistematica volontà di distruggere il
nostro sistema scolastico per creare una scuola moderna e democratica, i
“poteri forti” di cui sopra hanno utilizzato a man bassa la figura e l'opera di
don Milani facendone una sorta di santino della nuova scuola e soprattutto un
modello per i nuovi insegnanti. Si trascura tuttavia il fatto che la scuola di
Barbiana era guidata da un insegnante severissimo, che pur di ottenere
disciplina e attenzione non disdegnava di ricorrere agli schiaffi e alla frusta
e obbligava i bambini anche a 12 ore quotidiane di scuola senza neanche un
momento di ricreazione. E chi non seguiva le regole poteva anche essere
cacciato senza alcuna misericordia. Ma l'autocensura o la dabbenaggine e forse
la cattiva coscienza è andata anche oltre, per esempio tacendo su come lo
stesso Priore avesse sempre escluso che quel suo modello di scuola potesse
essere esportato in altri contesti, tantomeno quello della scuola pubblica, che
egli osteggiò senza alcuna indulgenza : “I miei eroici piccoli monaci che
sopportano senza un lamento e senza pretese 12 ore quotidiane feriali e festive
di insopportabile scuola e ci vengono felici non son affatto eroi, ma piuttosto
dei piccoli svogliati scansafatiche che hanno valutato (e ben a ragion ) che 14
o anche 16 ore nel bosco a badar pecore son peggio che 12 a Barbiana a prender
pedate e voci da me... Ecco il grande segreto pedagogico del miracolo di
Barbiana... che non è esportabile né a Milano né a Firenze”. (3)
Tornando
alla nostra pessima situazione scolastica, va sottolineato che da molti anni
non è stata oggetto di una vera e approfondita analisi. Non la si fa
innanzitutto in Parlamento, non la fanno i partiti, non la fa lo stesso
ministero competente, chiunque sia il ministro in carica. All'apparire di
qualche dato che conferma al solito la nostra debacle formativa, spesso segue un profondo e strategico silenzio
oppure qualche tranquillizzante dichiarazione che ci assicura come siano già in
atto le contromisure destinate a cambiare la sorte del nostro sistema
scolastico. Intanto da molto tempo tra i paesi Ocse siamo tra i primi per gli
insuccessi e gli abbandoni alle superiori, e tra gli ultimi per le percentuali
dei laureati e di coloro che al termine degli studi trovano un lavoro. Le
percentuali precipitano ulteriormente quando si tratta di collegare la
pertinenza del lavoro stesso con il titolo di studio conseguito. Siamo poi
penultimi per il numero dei bambini che frequentano scuole o istituzioni
educative per la primissima infanzia (0-3 anni), secondo i dati Oecd del 2018 (Education at a glance) (4). Il dato è importantissimo, perché
quello della primissima infanzia è il periodo della nostra esistenza in cui le
differenze legate all'ambiente di provenienza potrebbero essere più facilmente
colmate attraverso una scolarizzazione di qualità. Da diversi mesi, invece, il
numero dei bambini che frequentano i nidi sta precipitando per i costi sempre
più insostenibili, soprattutto al Sud, dove le percentuali della frequenza
erano già molto scarse.
Né è
confortante constatare che i dati sui risultati scolastici sono nettamente
differenti fra le varie parti del paese. Una cosa è nascere e studiare nelle
regioni del sud e delle isole, altra cosa è avere la fortuna di farlo in altre
regioni, per esempio del Nord est e del Nord ovest ove le prestazioni sono
generalmente molto buone.
I dati
Invalsi a disposizione confermano pienamente, purtroppo anno dopo anno, quelli Ocse a proposito dei diversi livelli
di competenza degli studenti dei tre cicli scolastici a seconda delle zone del
Paese a svantaggio ovviamente del Sud. A questo si aggiunge che ancora nel Sud
i risultati “differiscono maggiormente da una scuola all’altra e da una classe
all’altra rispetto a quanto accade invece nel resto dell’Italia: il sistema
scolastico è dunque nel mezzogiorno non solo meno efficace, ma anche meno
capace di assicurare agli alunni le stesse opportunità educative”(5). Neanche il Centro se la passa
benissimo e ancora una volta sono le regioni del Nord est e Nord ovest a
garantire un sistema più equo e con risultati pienamente soddisfacenti nelle
prove d'italiano, matematica e inglese a dimostrazione non solo di una differenza
sostanziale della qualità dell'insegnamento, ma anche del peso che
nell'apprendimento mantengono le condizioni sociali delle famiglie degli
alunni. L'ultimo Rapporto Invalsi,
presentato il 10 luglio 2019 dall'allora
ministro Bussetti alla Camera dei deputati, fece emergere purtroppo rispetto ai
problemi di sempre, allarmi ulteriori. Il primo di questi, e forse il più grave
perché farebbe pensare ad un progressivo decadimento della nostra scuola
primaria (ex elementare), ci fa presente come le insufficienze sulle materie di
base inizino appunto fin dalla scuola che fu in passato, come si accennerà
ancora più avanti, senz'altro il fiore all'occhiello dell'intero nostro sistema
scolastico. E non risolvendoli nella scuola primaria, come pur sarebbe obbligatorio fare, naturalmente sono destinati ad aggravarsi nei
successivi cicli di studi. Emerge inoltre
con altrettanta chiarezza come i ragazzi
che pur hanno affrontato l'ultimo esame
di maturità con percentuali di successo che rasentano in ogni parte d'Italia il cento per cento, nelle prove Invalsi
svolte poche settimane prima dell'esame
stesso abbiano invece dimostrato, non a
caso nelle materie di cui sopra, problemi gravissimi che contrastano
palesemente, e con imbarazzo, con le
percentuali dei promossi alla maturità. Da questi ultimi dati emerge
infatti che il 34,6 degli studenti delle
superiori non raggiunge livelli
sufficienti di competenza nella Lingua italiana e le percentuali salgono al
41,7 per quelle in Matematica. Ancora peggiori per quanto concerne la capacità
di lettura nella lingua inglese nella quale solo il 51,8 degli studenti
raggiunge le competenze richieste. E per quanto riguarda le capacità di
ascolto, le percentuali di chi comprende ciò che si dice in lingua inglese sprofondano al 35 per
cento!
In ogni
modo occorre ribadire con forza che il problema in assoluto più grave del nostro sistema scolastico è
quello di non assicurare a tutti uguali opportunità, a maggior ragione ai
ragazzi immigrati di prima generazione, agli ultimi posti in quasi tutti gli
indicatori, salvo quelli relativi alla lingua inglese, e trasversalmente in
tutte le aree del Paese. Insomma, è doveroso sottolineare ancora una volta come
sia lo status socio-economico-culturale dello studente a marcare le differenze
più sostanziali e trasversali a tutte le discipline oggetto delle prove a danno
di coloro che hanno alle spalle una condizione socialmente svantaggiata. Sono
dati che negli anni si vanno confermando quasi a voler trasmettere la
fatalistica convinzione che vi sia una relazione meccanica di causa-effetto tra
origine sociale e qualità dei risultati scolastici. Si tratta invece della
conferma di un sistema scolastico inadeguato, assolutamente non in sintonia con
una scuola che risponda alle istanze di un Paese compiutamente democratico. Per
esempio, per garantire equità a tutti gli studenti di qualsiasi età, condizione
e luogo, si dovrebbe poter contare sul medesimo (bravo) docente almeno per
alcuni anni di seguito. Oppure di un decente sistema di organizzazione
dell'orientamento scolastico, di una scuola che si riconosca in programmi
comuni e usi verifiche serie e credibili rispettando e facendo rispettare le
regole e che sappia organizzare attività
di recupero degne del compito a cui devono rispondere. Di fronte ad un quadro
così disperante ci sono regioni del nord, indipendentemente dalla matrice
politica della loro classe dirigente, che rivendicano un’autonomia
«differenziata» nella gestione della politica scolastica, e in particolare il
diritto di amministrare anche settori fino a oggi di esclusiva pertinenza
statale. Si capisce che qualora tali proposte si realizzassero, si finirebbe
col perdere qualsiasi speranza circa la possibilità di dare solidità alla
scuola della nazione. Ma il ministero di certe cose non s'interessa e si è ben
guardato dal prendere in merito una qualsiasi posizione. Prima di farlo
dovrebbe innanzitutto valutare con
attenzione se elettoralmente meriti tacere o agire. Il ministro Bussetti, per
esempio, nel giro di pochissimi mesi dal suo insediamento provvide a dimezzare le ore di alternanza
scuola-lavoro, penalizzando in maniera sostanziale forse l'unica attività che
almeno in fatto di orientamento al lavoro o agli studi universitari abbia una
certa importanza. E lo fece naturalmente senza alcun riscontro sul reale valore
dell'esperienza, peraltro da pochissimi anni andata a regime: di sicuro
soddisfacendo quella parte non proprio esigua degli studenti e dei sindacati
che fin dall'inizio l'avevano osteggiata.
Un'altra
manovra a cui di solito i ministri ricorrono volentieri perché evidentemente
garantisce visibilità, è quella di riformare gli esami di maturità. In tredici
anni sono cambiati sette volte: più o meno una riforma ogni due anni, così
neanche l'esame finale degli studi superiori è in grado di garantire continuità
e conformità al nostro sistema formativo. E naturalmente, tanto per non
smentire la tradizione non appena
arrivato lo scorso 5 settembre in Viale Trastevere, per dimettersi dopo appena
tre mesi, il ministro Fioramonti subito
tolse ciò che il suo predecessore aveva, neanche un anno prima,
innovato. Ovviamente la finalità rimane sempre la solita: facilitare il
“successo” formativo al costo, come è avvenuto, di ridicolizzare le stesse
prove Invalsi che ora verranno effettuate senza tuttavia, come pur da tempo era
previsto, pregiudicare o meno l'ammissione all'esame finale. E su questa
strada, quella legata all’esigenza d'inventarsi qualcosa di nuovo rispetto al
passato per lasciare il segno del proprio passaggio o di trovare facili
consensi nell'elettorato, nel giro di pochi anni si è passati, per il
reclutamento dei docenti delle scuole superiori di primo e secondo grado,
attraverso il sistema SISS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento
Secondario, gestita dalle università) a cui si accedeva per concorso e
prevedeva finalmente due anni di specializzazione universitaria, al varo del
TFA (Tirocinio formativo attivo). Un sistema questo assai complicato e gestito
anch'esso dalle università, che prevedeva che i futuri docenti affrontassero
obbligatoriamente esperienze di tirocinio nelle scuole prima di essere
definitivamente dichiarati idonei all'insegnamento. Dopo varie traversie si è
poi passati per il reclutamento dei docenti delle superiori al sistema FIT (Formazione iniziale, tirocinio e inserimento nella
funzione docente ) previsto dal DL.59 del 2017, superato tuttavia l'anno
successivo dal ripristino, per fortuna risparmiandoci l'acronimo, dei concorsi
tradizionali ordinari con sanatorie per i vecchi abilitati. Nel frattempo è
stato indetto un concorso per le scuole dell'infanzia e della primaria che
recupera anche i possessori del solo vecchio diploma magistrale, esonerando
dalla selezione iniziale e immettendo automaticamente in ruolo i candidati che
hanno nel tempo maturato complessivamente tre anni di servizio. Invece la
selezione per i vecchi diplomati magistrali sarà “soprattutto formale”, parole
dell'ex ministro Bussetti che bandì il concorso, recependo così in toto le
istanze dei sindacati. Dopo molti anni sono finalmente previste “selezioni”
anche per i docenti di sostegno, ma prima che possano essere svolte dovranno
attivarsi i relativi corsi di specializzazione, anch'essi spariti da troppo
tempo ma stavolta, data l'urgenza, riattivati frettolosamente con durata ridotta a un semestre. Così la stragrande
maggioranza dei nostri ragazzi disabili, da molti anni è seguita da docenti
privi di qualsiasi specializzazione e, per il futuro, non saranno certamente
questi improvvisati sei mesi di corso a garantire la necessaria preparazione
che invece servirebbe a dei veri docenti di sostegno! Purtroppo è anche normale che a moltissimi
ragazzi con handicap sia negata la continuità didattica. Ed è purtroppo
altrettanto normale che da qualche anno siano sempre di più le persone laureate
ma prive di specializzazione e di esperienza che, anche avanti con l'età,
scelgono questa professione (grazie alle
supplenze annuali) perché la crisi economica li ha privati della loro
passata occupazione. Di conseguenza il disastro anche in questo caso è
assicurato, naturalmente sulla pelle dei ragazzi e delle loro famiglie.
Diciamolo con franchezza: è quindi quasi solo formale il “primato” che la
scuola italiana rivendica rispetto a moltissimi altri paesi, cioè la
realizzazione, da decenni, dell'inserimento degli studenti con handicap fisici
e mentali nelle classi “normali”. E formali sono altre presunte innovazioni
(come la “scuola digitale”), spesso però decantate come fiori all'occhiello dai
responsabili dell'istruzione e dai pedagogisti ministeriali: una casta (più o
meno da molti anni la stessa, qualunque sia l'orientamento ideologico del
ministro in carica). Considerando la confusione e l’approssimazione con cui si
recluta il personale docente è quasi un miracolo che la nostra scuola in non
pochi casi funzioni ancora. Questo accade perché esistono docenti responsabili, animati da vero senso
dello Stato e del dovere, oltre che dalla consapevolezza che nessun bambino,
nessun ragazzo si può permettere di perdere il treno di un’istruzione decente:
un treno che non ripasserà mai più perché quello che si perde in sapere durante
gli anni scolastici lo si perde spesso per sempre. E così si pregiudica
inesorabilmente il loro futuro, soprattutto, ribadisco, degli studenti che non
hanno in famiglia i mezzi a disposizione per poter recuperare in altri modi il
loro svantaggio. Davvero un bel rispetto per la nostra Costituzione, visto che
la condizione attuale della nostra scuola permette di disattenderne
completamente o quasi gli artt. 3,4,9,31 e 34. Un bel capolavoro non c'è che
dire, soprattutto pensando che tale condizione è il frutto di politiche gestite
anche da epigoni di partiti che la Costituzione la vollero a costo di pagare
prezzi talvolta pesantissimi e che solo a parole, almeno per quanto concerne la
scuola, alla Costituzione continuano oggi costantemente a richiamarsi!
A
proposito di selezione dei docenti, non dimentichiamo poi il periodico ricorso
al reclutamento ope legis, basato cioè soltanto sugli
anni di servizio prestato come precari:
nessun concorso, nessuna verifica della loro reale preparazione. Molti,
inoltre, arrivano ad essere titolari di cattedra quando sono oramai stanchi,
frustrati e demotivati: non a caso l'età media dei nostri insegnanti è la più
alta d'Europa e la maggioranza di loro rasenta i 58 anni d'età. Naturalmente tutto questo non è casuale e le
ragioni sono in buona sostanza riconducibili a interessi e strategie legate
soprattutto al mondo sindacale, ma anche a quello più strettamente politico,
dato che la scuola rappresenta, come abbiamo accennato, anche un enorme
serbatoio di voti. In particolare, da qualche anno cresce il numero dei docenti
provenienti dal Sud, perché in questa parte del paese è maggiore la necessità
di dare un’ occupazione ai molti laureati che altrimenti non avrebbero altre
prospettive se non la disoccupazione. Insomma, la scuola rappresenta sempre più
un vero e proprio ammortizzatore sociale e in quanto tale si chiudono a volte
entrambi gli occhi sulla preparazione e predisposizione all'insegnamento. A
conferma di questa sua funzione impropria valga come esempio la scelta nel 1990
di adottare nella scuola elementare il cosiddetto sistema dei moduli, che ha in
linea generale quadruplicato la presenza delle insegnanti nelle classi, in passato
affidate a una sola maestra, o a un solo maestro quando appunto i maestri non
erano come ora merce rarissima. È assai probabile che su questa scelta abbia
pesato molto l’esigenza di salvare gli organici di allora, destinati altrimenti
a cali pesantissimi a causa del progressivo crollo delle nascite. Infatti, se
la scelta di rinunciare alla maestra unica fosse o meno opportuna sul piano
didattico e educativo si discusse ben poco e venne dato quasi per scontato che
la nuova scuola elementare dovesse essere strutturata in maniera “modulare”,
senza le opportune e approfondite sperimentazioni, come invece avviene prima di
qualsiasi grande riforma. E di “grande” riforma si trattò visto che abolì una
struttura educativa e formativa che aveva contribuito fino ad allora a dare
conoscenze e competenze di base veramente straordinarie, omogenee e in quanto
tali diffuse su tutto il territorio. E non a caso dopo la Seconda guerra
mondiale più di qualsiasi altro progetto era stata la scuola elementare a fare
in modo che gli italiani finalmente si riconoscessero come tali in una Patria
comune, perché comune stava finalmente diventando la loro cultura di base.
Evidentemente nel 1990 l'urgenza di salvare i posti di lavoro ebbe la priorità
su tutto il resto. Ci sarà pure una ragione se nelle scuole europee che
raggiungono nella primaria i risultati migliori c’è la presenza di un maestro
unico, o almeno prevalente e responsabile della classe e in quanto tale solo
coadiuvato in maniera parziale da esperti, per esempio nelle attività musicali,
psicomotorie o di lingua straniera. E vi sarà pure una ragione se fino ai primi
anni Novanta era la nostra scuola elementare a primeggiare a livello mondiale.
E le medesime esigenze occupazionali hanno condizionato la riforma degli istituti
tecnici e professionali del 2010, che videro aumentare, soprattutto nei
professionali, in maniera impressionante le materie teoriche a discapito di
quelle professionalizzanti. Peraltro, poco più di un anno fa, cercando di porre
rimedio a tanta insensatezza, le ulteriori “correzioni”, fatte dai medesimi
“esperti” che idearono la riforma del 2010, sono servite a dare all'istruzione
professionale una sorta di colpo di grazia visto che si è continuato a riempire
i curricula con altre discipline inserite, come capitò in passato per la
Geografia, anche per una sola ora settimanale. Di fronte alle contestazioni di
molti dirigenti scolastici e di qualche associazione culturale, il Ministero
cercò e cerca ancora di alleggerire le proprie responsabilità ricordando che le
singole scuole possono usare le percentuali di autonomia e flessibilità (di
loro spettanza) per diminuire le ore di alcune discipline a favore di altre,
tuttavia “nel rispetto” degli organici e magari con la possibilità di ricorrere
anche alla compresenza tra materie diverse. Come se fosse facile delegare ai
docenti la scelta di liquidare qualche loro collega per migliorare una
scellerata riforma piovuta dall'alto! E non occorre essere laureati in
Pedagogia per avere la consapevolezza di come la presenza di 16 materie renda
qualsiasi scuola dispersiva, superficiale, faticosa e perciò penalizzante e
umiliante per chi la frequenta. Se poi questa scuola è un istituto
professionale, il danno è assicurato in maniera quasi definitiva; e non è un
caso che proprio nei professionali i tassi di abbandono e di bocciature siano
vergognosamente alti. Ad adolescenti votati a una cultura del fare non possiamo
in nessun modo permetterci di presentare loro in maniera quasi residuale, come
accade invece nei nostri istituti, le materie professionalizzanti.
C'è
dell'altro, e forse è ancora più grave di quanto ho già detto, che contribuisce
a rendere sempre più marginali e inadeguati al loro compito gli indirizzi
professionali. In queste scuole si concentra la quasi totalità dei ragazzi
disabili e di coloro che hanno gravi problemi di qualsiasi altra natura, anche
sul piano comportamentale e sociale. Moltissimi sono inoltre quelli stranieri
inseriti nelle classi non in virtù delle loro conoscenze reali ma in base
all'età anagrafica, qualunque sia la loro preparazione*. In certe classi capita
spesso di non riuscire, per ore, a fare lezione per la forte concentrazione di
studenti problematici. Per qualche anno un neonato istituto alberghiero di una
provincia toscana ebbe a disposizione per le esercitazioni la cucina di una
vecchia canonica abbandonata. Si può ipotizzare che in altre parti del paese
non esista neanche questa possibilità? (Ad una dirigente di mia conoscenza di
un istituto alberghiero è arrivato lo scorso anno un giovane supplente annuale
di Cucina privo della divisa confessando che non l'aveva mai usata nel corso
dei suoi cinque anni appena trascorsi da studente di un alberghiero)! Eppure
sono spessissimo proprio i ragazzi che incontrano le più serie difficoltà nelle
discipline legate a una cultura astratta a diventare persone diverse
ogniqualvolta si misurano con attività pratiche. Basta osservarli in quei
momenti per rendersi conto come proprio in quelle circostanze manifestino per
quello che fanno interesse e passione. Un’esperienza troppo poco frequente, e
questo provoca ben presto in loro delusione e scoraggiamento. Quando invece che
in laboratorio sono seduti al loro banco, anche di fronte al più bravo e
appassionato dei docenti è evidente appunto la loro frustrazione e il loro
disagio. Che spesso manifestano “boicottando” in vari modi le lezioni legate ad un sapere astratto che potrebbe
arrivare loro in un secondo momento, quando magari saranno in grado di rendersi
conto quanto, possedendolo, potrebbe aiutarli anche nella professione scelta.
Mi sono
volutamente dilungato sull' indirizzo professionale perché di fronte agli altri
è senza alcun dubbio quello che più ha pagato rispetto alle riforme di questi
ultimi decenni.
Ma una
sorte simile, anche se meno drammatica rispetto agli istituti professionali, è
toccata anche a quelli tecnici, che pagano la cronica mancanza di laboratori,
ma anche il doversi misurare con quadri orari sovrabbondanti di materie che
contribuiscono a togliere loro l'identità. I licei in generale, soprattutto
quelli tradizionali, mantengono ancora una loro
peculiarità ma sono anch'essi accumunati agli altri indirizzi per il
progressivo abbassamento del livello di preparazione dei loro studenti. E anche
nei licei sono in costante crescita i ragazzi con disturbi specifici
dell'apprendimento (DSA) o con bisogni educativi speciali (BES), questi ultimi
comprensivi di difficoltà che spesso non hanno origine neurologica, ma sono
legate anche a una preparazione di base inadeguata. È ancora l’Ocse a farci
presente che le competenze nella lettura per il 21% dei nostri ragazzi di prima
superiore non raggiungono i livelli minimi. Percentuale ampiamente superiore,
pur essendo la nostra lingua “trasparente”, a quella, per esempio, dei loro
coetanei irlandesi, olandesi, statunitensi e inglesi che si misurano invece con
una lingua “opaca” perché lo scritto non corrisponde appunto, come accade
invece per la nostra lingua, al parlato. E
ancor più sconcertanti sono i dati Ocse-Pisa diffusi il 3 dicembre scorso
relativi invece ai nostri quindicenni
che certificano come solo il 5 per cento di loro sia capace di comprendere
pienamente un testo. Per il restante 95 per cento le posizioni si differenziano
ulteriormente a seconda degli indirizzi e delle regioni di riferimento, ma rappresenta una vera e
propria catastrofe culturale e sociale dover constatare che almeno il 50 per
cento dei ragazzi dei professionali non raggiunge neanche i livelli minimi di
competenza e che il decremento delle competenze in lettura è dal 2000 in
costante diminuzione in tutti i nostri indirizzi. Competenze che sono in caduta
libera anche per quanto riguarda le Scienze e, pur nella precarietà, stabili
invece quelle in matematica. E se in caduta libera sono le competenze di base
non è difficile pensare che possa esserlo anche la nostra scuola di base
funzionale appunto a trasmetterle! Infine, vale davvero la pena di aggiungere
che la medesima indagine Ocse certifica come i nostri quindicenni siano, tra i
29 paesi presi in esame, i più scorretti sul piano disciplinare e quelli che in
assoluto fanno più assenze: tanto per fare un esempio, nelle due settimane
precedenti il test Pisa il 57 per cento degli studenti italiani ha saltato un
giorno di scuola ( media Ocse 21 per cento ). Di fronte a questa lenta e
inesorabile catastrofe del nostro patrimonio linguistico che tuttavia molti
docenti, sebbene inascoltati, da anni denunciano e per questo talvolta anche
tacciati di laudatores tempori acti dai
soliti apostoli del buonismo e della pedagogia a prezzi scontati, viene da
chiedersi quali seri provvedimenti siano stati presi. In realtà quasi niente,
salvo l'aumento spropositato delle certificazioni che oramai non si negano
quasi a nessuno. Così il problema viene aggirato e sempre più spesso l’obiettivo
delle famiglie diventa quello di riuscire a far seguire al proprio figlio
percorsi privilegiati per tutto il corso dei suoi studi. D’altra parte, la
crescita dei ragazzi disgrafici e dislessici è probabilmente legata, secondo
l'insigne neuropsichiatra Michele Zappella, anche alla minore attenzione che
dagli anni '70 si è iniziato a dare alla calligrafia e all'ortografia e anche
in questo la cosiddetta cultura dominante degli ultimi decenni ha precise responsabilità. A tale proposito
egli scrive: “L’evidenza dei fatti parla
in questa direzione. La nostra scuola è intrisa di indicazioni tratte dal
‘donmilanismo’, per usare una felice espressione della Mastrocola, con una
critica feroce a ortografia, grammatica, matematica e soprattutto a chi studia
con successo e merito, ridicolizzato nella figura di Pierino nella Lettera a una professoressa. Tutto ciò è
contro i figli delle classi svantaggiate e le loro possibilità di affermarsi.
Basta ricordare che fu proprio la valorizzazione del merito scolastico a consentire
di realizzare il proprio talento a molti dei principali protagonisti della
nostra cultura: si pensi a Cimarosa, figlio di una lavandaia e di un muratore,
e allo stesso Verdi, figlio di una filatrice e di un modestissimo rivenditore
di vino. Nella prospettiva sopra indicata, cara al consumismo, i ragazzi
possono ben restare ignoranti e consumatori di quart’ordine. Essa va bene anche
ai figli di papà, i quali, anche se scrivono da cani e non comprendono un testo
complesso, possono andare avanti con le conoscenze e le risorse familiari” (6).
Vale inoltre la pena di ricordare che fu grazie all'impegno
sociale e agli studi del professor Zappella se negli anni '70 furono chiuse le
scuole speciali aprendo ai ragazzi “difficili” finalmente quella pubblica. Ed è
sempre Zappella a sostenere che i ragazzi con problemi realmente gravi
dovrebbero disporre nelle scuole di spazi attrezzati adatti alle loro esigenze,
per esempio una stanza tranquilla in cui gli allievi autistici, spesso
iperacusici, si possano rilassare.
Quanti
talenti possiamo aver perduto per una politica scolastica che ha mirato a un
progressivo decadimento della vecchia scuola creandone una nuova che ha come
principale obiettivo quello di non
perdere nessuno per strada, senza peraltro riuscirvi pur abbassando in modo consistente i livelli di
preparazione? Così la scuola del passato, insieme alle sue tante pecche, è
stata liquidata, spazzando via quanto di positivo conteneva e che era anche il
frutto del lavoro duro di tanti bravi docenti, sedimentato attraverso anni di
fatica e di preziosa esperienza.
Forse
l’attacco più micidiale è stato sferrato contro la disciplina, attraverso la
colpevolizzazione degli insegnanti che punivano i comportamenti scorretti,
quasi fossero incapaci di valutare se una sanzione disciplinare fosse più o
meno opportuna e per questo fossero da sottoporre al controllo dei
rappresentanti dei genitori e (nelle superiori) degli stessi ragazzi. Insomma,
docenti e presidi da sottoporre finalmente ad una sorta di Tribunale del popolo tanto di moda nel costume protestatario
studentesco del sessantotto e degli anni immediatamente successivi. E qualora ciò non fosse stato
sufficiente a scoraggiarne le decisioni, sarebbe potuta intervenire, su istanza
dei genitori, la stessa magistratura amministrativa a sancire (per esempio) se
un’insufficienza in condotta poteva o meno essere comminata. A “difesa” degli
studenti e delle famiglie fu varato appunto lo Statuto degli studenti e delle
studentesse, che indica in maniera burocraticamente minuziosa come la scuola si
deve comportare per irrogare le sanzioni disciplinari. A far sentire gli
insegnanti ancor più sotto attacco arrivò nel 1999 il famigerato “concorsaccio”
ideato dal ministro Berlinguer, che avrebbe dovuto individuare il 20% di loro
degni di un aumento dello stipendio in quanto giudicati più bravi rispetto a
tutti gli altri colleghi. Il progetto non andò in porto in virtù di una
protesta senza precedenti da parte della categoria, finalmente unita di fronte
a quella che sul “Corriere della Sera” Riccardo Chiaberge aveva efficacemente
definito “un’avvilente lotteria”, perché la prova scritta si sarebbe basata su
una serie di quiz. Tuttavia l’idea che “premiare i migliori” serva a migliorare
la scuola è stata in vario modo riproposta negli anni successivi da vari
ministeri. Al di là dei criteri da adottare per farlo (una scelta prudentemente
scaricata sulle singole scuole) e dell’entità del “premio”, in genere modesta e
comunque “una tantum”, il buon senso e l’esperienza suggeriscono che si tratta
di un’idea sbagliata. La qualità media degli insegnanti non viene infatti
migliorata: per
definizione i migliori lavorano già molto bene. A questo aggiungiamo la
probabile frustrazione dei colleghi non premiati che, pur operando con impegno
e buoni risultati, si vedono in sostanza declassati a mediocri. Ma quello che
soprattutto li può avvilire è la non rara presenza di colleghi scadenti che
vengono retribuiti esattamente come loro. Dovrebbe essere invece
indiscutibile la necessità di allontanare tempestivamente dalla cattedra gli
insegnanti gravemente inadeguati; e questo sì che aumenterebbe la qualità media
della scuola italiana! Tuttavia nessuno, tantomeno chi si è
autoconvinto di fare gli interessi dei poveri e degli emarginati, ha mai parlato
della necessità di colpire il demerito, facilissimo peraltro da individuare,
permettendo così che gli insegnanti incapaci o neghittosi – una netta
minoranza, però in grado di fare danni irreversibili soprattutto, ribadisco, ai
ragazzi più svantaggiati – possano essere licenziati o destinati ad altri
incarichi nella pubblica amministrazione.
La
critica all’impostazione “premiale” non significa che non si debba avviare, e
quanto prima, una vera e propria “carriera” per i docenti. In passato c'era
stato l’esame (volontario) per il riconoscimento del merito distinto, superando
il quale si conquistava il diritto a scatti di stipendio; una possibilità che
ovviamente fu cancellata dalla furia egalitaria dei primi anni '70. Oggi però
l’urgenza è quella di dotare le scuole autonome, spesso molto fragili sul piano
organizzativo e progettuale, di un vero e proprio staff che affianchi i
dirigenti sommersi da infinite responsabilità, selezionando docenti qualificati
in grado di ricoprire funzioni e ruoli diversi dall'insegnamento all'interno
delle scuole: responsabili della ricerca e dell’aggiornamento,
dell'orientamento, dei rapporti col mondo economico, oltre ai collaboratori del
preside. Solo così, e con una maggiore autonomia finanziaria, le scuole possono
far fronte in modo efficiente ai loro compiti, abbandonando il meritorio ma
fondamentalmente ingiusto volontarismo semigratuito, del resto non sempre
davvero all’altezza dei problemi da risolvere.
Durante
il ministero di Luigi Berlinguer iniziò anche una battaglia culturale, spesso
supponente, contro la scuola delle conoscenze – spesso squalificate come
“nozionismo” inutilizzabile nella vita reale – da superare attraverso
l'insegnamento delle competenze. Si dura una certa fatica a capire cosa
realmente si intenda con questo termine. In parole povere si vorrebbe dire che
chi ha acquisito delle conoscenze non è detto che poi le sappia utilizzare per
risolvere problemi, affrontare situazioni e via dicendo. Su questa presunta
innovazione già dieci anni or sono si espresse con esattezza il compianto
Giorgio Israel (più volte tornato sull’argomento):
“È da sempre nella
tradizione della matematica e della fisica – e anche di tante discipline
umanistiche come quelle filologiche – la consapevolezza che conoscere concetti
non vuol dir niente se non si sa farne uso fino a riuscire a metterli in opera
per risolvere problemi complicati.[...]. Insomma, si è sempre detto e ripetuto
che conoscere “a pappagallo” nozioni non serve a niente e che chi resta a
questo livello è un incapace. [...] Secondo certi “teorici” il mondo finora è
stato popolato di idioti e la capacità di formare gente colta e capace è nata
con loro. Tutto il sapere che ci è stato consegnato è deficiente perché
costruito da gente che non sapeva cosa sono le “competenze”(7).
All'elogio
delle competenze si è accompagnata una vera e propria idolatria delle nuove
didattiche, irridendo innanzitutto alla lezione frontale vista anch'essa come
uno dei mali endemici della nostra tradizione scolastica. Da cancellare,
quindi, a favore della Flipped Classrom, del Role Playng, dell'Action Maze,
dello Studio di caso, del Cooperative Learning, del Circle Time, del Metodo
euristico (finalmente una definizione nella nostra lingua, pressoché scomparsa
nel linguaggio della pedagogia democratica e progressista). Spesso tutte queste
innovazioni vengono proposte irridendo a quelle tradizionali. Che moltissimi
docenti continuano a usare, ma spesso alternandole a strategie diverse e
consone alla situazione in cui vengono a trovarsi e magari utilizzando proprio
“l’apprendimento cooperativo” o “la classe rovesciata”. Mai, da parte dei
cosiddetti innovatori, c’è un riconoscimento di quanto di efficace e di
positivamente sperimentato è stato fatto dai nostri insegnanti nelle nostre
scuole. E quasi mai si ricorda quanto dice la Costituzione a proposito della
libertà d'insegnamento, che non significa poter insegnare come si vuole ciò che
si vuole, ma neanche seguire una vera e propria didattica di Stato.
Un'altra
delle istanze irrefrenabili della didattica progressista è la cancellazione dei
voti e la limitazione degli esami all'essenziale, al costo di farne una
caricatura. E senz'altro si arriverà presto, per decreto, alla eliminazione
totale delle bocciature. Su queste materie negli anni, anche in questi ultimi,
si sono succeduti decreti di ogni genere, scollegati tra di loro, improvvisati,
fuorvianti e comunque in grado di disorientare i docenti, che pure in
maggioranza hanno contribuito a salvare il salvabile e a evitare che il nostro
sistema scolastico colasse a picco.
Perché
ciò non accada si può ancora fare qualcosa e lo si deve fare senza attendere
altro tempo. Dovremo urgentemente provvedere, come già detto, a cambiare il
sistema di reclutamento dei docenti, rendendolo più efficace e molto più
selettivo. Ci vorranno decenni perché il rinnovamento in questo senso possa
dare i suoi frutti; perciò lo dovremo fare da subito. Una buona scuola la si
ottiene se abbiamo docenti bravi, motivati e appassionati al loro lavoro. Vorrà
pure significare qualcosa se il paese che ha il miglior sistema scolastico del
mondo, la Finlandia, è anche quello che recluta i propri docenti attraverso una
selezione durissima: solo un insegnante su dieci concorrenti riesce ad ottenere
il ruolo, poi sottoposto periodicamente a verifica. E probabilmente è per
questo motivo che la loro professione, in quel paese, è quella che gode di
maggior prestigio rispetto a tutte le altre.
Come
Gruppo di Firenze abbiamo inoltre chiesto che le scuole superiori non siano più
basate sulla successione delle classi, ma su corsi disciplinari, in modo da non
ripetere interi anni scolastici a causa dell’insufficienza in alcune materie ( 8 ).
È fondamentale
che la scuola torni a ridare importanza, per tutti, al rispetto delle regole
perché nessuno potrà mai dare valore a qualcosa o a qualcuno che non pretende
rispetto. Nessun “pulcino” dopo un po'
di tempo, prenderebbe sul serio il proprio allenatore e la scuola di
calcio in cui ognuno fosse libero di
fare ciò che vuole. L'insegnamento dell'educazione civica si traduce in mera
retorica se non è accompagnato da un'esperienza pratica e quotidiana in grado
di dimostrare come la qualità della convivenza civile sia decisamente migliore
se non dominata dal caos, dalle prepotenze e dall’irresponsabiltà. E questo
vale per gli studenti, per gli insegnanti e per i presidi. Perfino l'Ocse, come
abbiamo visto, ha recentemente messo in evidenza quanto i migliori risultati
sul piano della preparazione culturale e delle competenze vengano ottenuti, non
a caso, nei sistemi scolastici che danno molto valore al comportamento corretto
degli allievi.
Agli
istituti tecnici e soprattutto ai professionali occorre restituire la loro
identità di scuole che preparano al lavoro, diminuendo il numero e il peso
delle materie teoriche e aumentando quelle di laboratorio (e di esperienza
concreta nel mondo della produzione).
In
tutti gli indirizzi di studio c’è la necessità di dare un maggior peso alla
serietà e alla frequenza delle verifiche, sia in itinere che di fine corso.
Naturalmente
per migliorare la scuola, tanto è profondamente in crisi, servirebbe molto
altro, ma tutto sarebbe inutile, se non si partirà dalle istanze sopra ricordate.
Le strategie didattiche, tanto decantate e alle quali molti attribuiscono
poteri salvifici, non hanno alcuna incidenza se applicate a un contesto privo
di rigore metodologico e valutativo. La scuola non si salva con la pedagogia di
don Milani, fuori tempo e fuori posto o con un avventato nuovismo didattico né
caricandola di funzioni che non le spettano quali le “Educazioni” di ogni
genere: pace, affettività, sessuale, finanziaria, stradale, gioco d'azzardo,
omofobia, droghe, alimentare, parità di genere, mafia, volontariato, memoria,
salute etc etc. La scuola la si salva anche facendo riferimento a quei bravi,
oscuri, silenziosi docenti che nel corso della loro vita professionale hanno
utilizzato a seconda delle situazioni il metodo più appropriato per motivare i
loro allievi e per arricchirli culturalmente. E per far circolare la loro
esperienza va promosso nelle scuole il metodo seminariale, tipico delle
professioni, come base dell’aggiornamento continuo, in modo da favorire la
discussione sui successi e sui fallimenti di ciascuno, perché servano da
insegnamento. Niente o quasi del genere è avvenuto fino a ora; e la gran parte
degli esperti che il ministero ha ingaggiato per formare gli insegnanti spesso
per demonizzare loro le lezioni frontali pur utilizzandole tuttavia per
aggiornarli, quasi mai aveva messo piede
in un'aula scolastica. Partiamo da queste, peraltro pochissimo costose
iniziative, e avremo probabilmente trovato una strada, ovviamente non la sola,
per trasformare il nostro sistema educativo.
Nel
frattempo il 10 gennaio scorso ha prestato giuramento la nuova ministra, Lucia
Azzolina, che appena insediata ha dichiarato
tra l'altro che intende procedere per formalizzare i bandi relativi ai nuovi concorsi che vorrebbe però più selettivi.
Ha dichiarato inoltre di considerare prioritaria la formazione continua dei
docenti a conferma che almeno una delle emergenze della scuola le sono
senz'altro chiare. Speriamo che in futuro lo diventino anche le altre di cui
abbiamo sopra parlato. Prendiamo inoltre come ulteriore buon segnale l'aver
evitato, al contrario di molti suoi predecessori, di sommergere l'opinione
pubblica di inconcludenti dichiarazioni e di prendere “clamorose” quanto
deleterie decisioni funzionali a dare una immediata visibilità al ruolo
ricoperto, senza minimamente curarsi dei veri interessi dei ragazzi, delle loro
famiglie e naturalmente del Paese.
Valerio Vagnoli
Gruppo di Firenze per la scuola del merito e
della responsabilità
Note
1) Gruppo di Firenze (blog), Saper leggere e scrivere: una
proposta contro il declino, appello sottoscritto da 770 docenti universitari
del febbraio del 2017
2) M. Pirani, La Gelmini
impaurita dal voto in condotta, La Repubblica, 26 gennaio 2009
3) Lettera a Elena Brambilla del 28.9.1960 in Lettere di Don
Lorenzo Milani priore di Barbiana, Firenze 1970
4) Rapporto Oecd del 2018, Roma 11 settembre 2018
5) Commento di Anna Maria Ajello Presidente INVALSI al rapporto
del luglio 2018
* In una trasmissione televisiva di una decina di anni fa andò
in onda un chiaro esempio di quanto il donmilanismo e l'esaltazione del “valore
“ delle esperienze educative improntate al pauperismo sia stato e lo sia
tuttora diffusissimo. Il conduttore Gad Lerner sosteneva con il sostegno del
pubblico in studio, che una classe composta dal 70% di allievi stranieri
rappresentasse una grande occasione formativa. Naturalmente Lerner e gli
spettatori neanche si ponevano il problema che percentuali del genere
qualificano in realtà l'esistenza di una classe-ghetto. Se lo pose in
collegamento telefonico l'allora ministro Fioroni che cercò, invano, di portare
il conduttore e tutti i suoi ospiti a riflettere sul principio di realtà, che
non deve assolutamente mancare in un buon educatore.
6) Intervista al Prof.
Michele Zappella del 3 giugno 2017 in blogspot.com del Gruppo di Firenze. Sul
medesimo blog si può trovare l'intera registrazione del Convegno-dibattito sui
BES tenutosi il 16 dicembre 2013 presso l'Istituto alberghiero Saffi di Firenze
7) Giorgio Israel, La scuola delle “competenze”
demenziali, “Il Giornale”, 15 novembre 2009.
8) Giorgio Ragazzini,
Ripetere le materie insufficienti, non la classe: scuole superiori basate su
corsi disciplinari, Il Sussidiario.net del 1/2/2019
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