Un tetto del 20%? O del
30%? No al 40% o, peggio, a percentuali superiori… In questi termini, la
discussione sui limiti alla presenza degli allievi stranieri è da Paese del
pressappoco. Non ci vuole Einstein, come per la spesa in un certo supermercato,
per capire che non dovrebbe essere impostata soltanto secondo criteri
quantitativi, ma soprattutto in base a quelli qualitativi largamente usati per
le certificazioni linguistiche europee. In altre parole, un 30% che se la cava
con la nostra lingua non è la stessa cosa del 30% che non la conosce affatto o
in cui c’è chi la sa bene e chi no. Il Quadro di riferimento europeo per le
lingue straniere prevede tre livelli di competenza: elementare (A),
intermedio (B) e avanzato (C), ciascuno suddiviso nei
sottolivelli 1 e 2. Per ogni livello è stata
individuato un repertorio di descrittori riguardanti la comprensione e la
produzione. Il primo passo, quindi, deve consistere nell’accertare in modo
accurato la conoscenza della nostra lingua. Il tema
delle percentuali non può essere posto in chiave ideologica, ma in stretto
rapporto alle considerazioni di cui sopra. Alle quali però si deve aggiungere
che la presenza di un gran numero di stranieri con grosse difficoltà nella
nostra lingua tende a favorire i rapporti fra di loro e a limitare
inevitabilmente l’interazione con gli italiani, preziosa anche come esercizio.
Dopo avere
impostato correttamente la composizione delle classi, resta il problema dei
metodi con cui assicurare l’integrazione linguistica. In Europa prevale di gran
lunga un salutare pragmatismo: si fa quello che è più utile a seconda dei casi.
Di conseguenza, si dispone di una molteplicità di modelli all’interno dello
stesso sistema scolastico. C’è quasi ovunque il sostegno all’interno della
classe e quello – per alcune ore – al di fuori della classe, ma nell’orario delle
lezioni. C’è il modello separato, cioè l’insegnamento intensivo della lingua
del paese ospitante, che può essere di qualche mese, ma può arrivare anche a un
anno, se necessario. In tutti e due i casi in genere si fa il possibile, per
mantenere il contatto con la classe e favorire la socializzazione nelle materie
in cui la lingua è meno indispensabile (per esempio le attività motorie o
sportive e l’educazione artistica). C’è infine il modello dell’insegnamento
pomeridiano della lingua.
Negli ultimi
vent’anni anche in Italia si sono fatti alcuni passi avanti in direzione di una
maggiore articolazione metodologica, ma per quanto riguarda il metodo
“separato” (i suddetti periodi più o meno lunghi di apprendimento intensivo
dell’italiano prima di entrare a pieno titolo in classe), è ancora forte,
soprattutto a sinistra, il riflesso ideologico che fa parlare di
“discriminazione” e di “ghetti”. Nel 2008 e di nuovo nel 2013 la Lega Nord
propose classi “ponte” o “di inserimento”, analoghe a quelli che
esistevano in una ventina di stati europei per allievi
che non conoscevano l’italiano, funzionali all’ingresso nelle
classi permanenti. Apriti cielo. La Cgil disse che si trattava “di una norma discriminatoria che ci riporta
indietro nel tempo alle ‘classi differenziali’ degli anni '50, ma è anche un
atto ‘razzista’ nei confronti dei bambini”. Bonanni della Cisl aggiunse:
“Arriveremo alle scuole per i maschi e per le femmine, per i biondi e per i
mori, per il Sud e per il Nord.” E così via su questo tenore.
A leggere i giornali, nell’ultimo mese il ministro Valditara ha fatto due proposte diverse. Prima ha parlato di lasciare alla valutazione delle scuole, dopo aver verificato le competenze linguistiche dei ragazzi immigrati, la scelta fra tre possibilità: l’inserimento tout court in classe per chi ha una buona conoscenza dell’italiano; se invece ci sono carenze molto accentuate si può pensare a due soluzioni alternative: il ragazzo straniero viene inserito in una determinata classe, però le lezioni di italiano e magari quelle di matematica le segue in una classe “di accompagnamento” con docenti specializzati; e infine la “didattica potenziata dell’italiano”. Sembra di capire che su quest’ultima Valditara sia tornato in questi giorni, parlando di attività obbligatorie di potenziamento linguistico nel pomeriggio. Staremo a vedere, sperando che il confronto in materia non sia a base di anatemi, ma di serie riflessioni.
Giorgio Ragazzini (“Pensalibero”, 3 aprile 2024)
1 commento:
Il ben vestito Valditara è ragionevolmente sicuro che l'impero romano sia stato distrutto dagli immigrati, al punto da aver dedicato all'argomento una monografia pubblicata come allegato a "Il Giornale".
Sarebbe interessante sapere per quale curioso motivo il nome di "Giuseppe Valditara" e il concetto di "serietà" dovrebbero comparire nello stesso discorso.
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