Il governo attraverso la
discussione: è questo il modo migliore per
definire la democrazia, quello che ne coglie il nucleo profondo, che non è
tecnico, ma umano, come vedremo tra poco. La definizione è dell’economista
James Buchanan, poi ripresa da Amartya Sen in un saggio pubblicato sul “Foglio”
nel 2003. Questo punto di vista, scrive lo studioso indiano, ci consente di ampliare la storia delle idee democratiche e in particolare di
correggere la convinzione “che la democrazia sia un’idea esclusivamente
occidentale”. Sen sottolinea infatti l’esistenza di “lunghe tradizioni di incoraggiamento e protezione della
discussione pubblica su temi politici, sociali e culturali, ad esempio in
India, Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte regioni
dell’Africa”. Tutto questo, aggiunge, non diminuisce certo l’importanza di
elezioni e votazioni, che però sono in realtà un mezzo per dare uno sbocco
concreto a quello che è maturato nel dibattito pubblico; se accompagnato,
s’intende, dalla garanzia di poter parlare e ascoltare liberamente.
Ma l’idea della democrazia come “governo attraverso la
discussione” ci spinge ad andare oltre le considerazioni di Amartya Sen e a
scoprire il legame tra democrazia e natura umana. Pensiamo al modo in
cui tutti noi prendiamo piccole o importanti decisioni: in famiglia, fra amici,
nei gruppi di cui facciamo parte. Lo facciamo quasi sempre discutendo. Fin da
ragazzi: A che si gioca? Chi ha ragione fra Paolo e Teresa? È meglio il Liceo
classico o lo scientifico? Lo stesso avranno fatto anche i nostri lontani
antenati per organizzare la caccia, la pesca o la raccolta, per scegliere la
direzione verso cui migrare o, successivamente, per distribuirsi i compiti nei
lavori agricoli.
La democrazia è
quindi radicata in una caratteristica fortemente evolutiva dell’essere umano:
la capacità di scambiarsi delle idee, di confrontarsi su diverse opzioni, di
accordarsi e collaborare in vista di uno scopo. Non solo: la democrazia ha
radici anche nella testa di ognuno di noi, dato che vi si svolge quel dialogo
“tra me e me” che è, come sottolinea Hanna Arendt nel suo libro su Socrate,
“condizione basilare del pensiero” (fu infatti il filosofo ateniese a sostenere
che siamo tutti “due-in-uno”).
Del legame con
queste caratteristiche degli esseri umani – in cui, come sappiamo, possono
prevalere altre e opposte tendenze – dovrebbe tenere conto la scuola nella
didattica dell’educazione civica (o della storia), specie nel primo ciclo di studi, in cui gli allievi non hanno sviluppato
compiutamente la capacità di astrazione e in genere apprendono meglio in base a
esempi concreti, anche tratti dall’esperienza personale. Spiegare la
democrazia cominciando da elezioni, diritto di voto, maggioranze e minoranze,
parlamento, può essere un po’ come iniziare dal tetto la costruzione di una
casa (questo non esclude che ci siano altri percorsi didattici adatti all’età).
Questa concezione della democrazia rende più evidente l’importanza della qualità della discussione pubblica. Perché un sistema democratico funzioni
non basta discutere: bisogna farlo bene. Purtroppo il dibattito politico lascia
molto a desiderare, sia che ci si riferisca al dialogo tra i politici, sia a
quello tra i cittadini interessati ai problemi della società e al confronto tra
i partiti. Sotto accusa in particolare la Rete, che, se rende possibile
diffondere un’idea intelligente anche se espressa da un signor Nessuno, allo
stesso tempo non solo fa circolare una valanga di sciocchezze e di offese, ma,
come ha ben detto
Luca Ricolfi, “è il luogo nel quale si celebra e si conferma quotidianamente la
distruzione della distinzione tra fatti e opinioni sui fatti”.
Quanto alla discussione a voce, quella tradizionale “in presenza”, spesso
càpita di assistere a “dibattiti” in cui ci si interrompe in continuazione, si
urla, si squalifica l’interlocutore, si sostituisce l’argomentazione con
etichette, sarcasmi, caricature delle idee altrui. E non c’è quasi problema
complesso che non venga iper-semplificato.
Neppure per migliorare il livello della discussione pubblica esiste una
soluzione semplice. Potrebbero fare molto nel proprio àmbito soprattutto i giornalisti,
i conduttori televisivi, i partiti. E ovviamente anche la scuola. Non basterà
però un’ora di educazione civica, la cui reintroduzione, peraltro, proprio in
questi giorni è stata rimandata all’anno prossimo. Per formare i futuri
cittadini democratici c’è prima di tutto bisogno di una scuola che non transiga
sull’impegno nello studio, faccia capire quanto è complessa la realtà, scoraggi
la presunzione. Altrettanto esigente la scuola deve essere sul rispetto delle
regole della convivenza civile, compreso il modo di discutere correttamente.
Solo così formeremo persone culturalmente più preparate, capaci di attenersi
alle leggi che la società si è data a garanzia dei diritti di tutti e rispettose
dei punti di vista diversi dal proprio.
Giorgio Ragazzini
(“ilsussidiario.net”, 6 settembre 2019)
2 commenti:
Come non essere d' accordo? La situazione del discorso pubblico è gravissima: si sono perse le categorie di base dello scambio argomentativo. Impossibile dibattere, impossibile confrontarsi. Anche gli intellettuali si muovono con difficoltà nei contesti pubblici : spesso vengono attaccati da invettive degli astanti e non riescono a finire i discorsi. Guido Barbujani, che non è l ultimo arrivato, ne riferisce nella prefazione al suo ultimo testo "Sillabario di genetica per principianti". Nota che, oltre le accuse che si sente buttare in faccia per le sue idee, manca del tutto la curiosità di conoscere voci e idee diverse dalle nostre. Certo che la scuola può, deve fare molto. Ci sono comportamenti da praticare e insegnamenti da privilegiare, come la teoria e la pratice dell' argomentazione.
Giusto. Oltre alla responsabilità di chi guida (si fa per dire) i dibattiti, va sottolineata la degenerazione a cui si è alla lunga arrivati nelle trasmissioni che danno voce agli ascoltatori (si è poi aggiunta la partecipazione tramite messaggi scritti). Molto spesso viene utilizzato il criterio "democratico" di dare spazio a pareri contrapposti indipendentemente dalla loro sensatezza, cioè la par condicio tra interventi ragionevoli, magari ben argomentati, e fesserie sesquipedali. Chi non sa ragionare si convince sempre di più che "uno vale uno" e che con uno slogan si può liquidare un'argomentazione o addirittura un dato di fatto.
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