giovedì 18 settembre 2008

DOPPIA IPOTESI PER UN RELITTO

di Giorgio Ragazzini
Si sa che un’affermazione ripetuta più volte tende a diventare una realtà indiscussa. Quello che però distingue il dogma dalla verità è un numero sufficiente di prove; e il caso della scuola media (che l’Ufficio Complicazione Cose Semplici del Ministero Moratti ribattezzò agilmente “scuola secondaria di primo grado”) è di incerta collocazione fra le due categorie. Da anni se ne sente parlare come “anello debole” del sistema scolastico. Si rilevano alcuni sintomi, ma le diagnosi e quindi le terapie non mi sembrano supportate da analisi convincenti. Sul sito dell’Associazione Docenti Italiani, uno dei più seri e documentati in tema di scuola, leggo che l’inadeguatezza di questo livello dell’istruzione è dimostrata dai dati di due indagini internazionali: “PIRLS, sulle competenze degli alunni di 9 anni, assegna all’Italia risultati molto buoni; PISA, sulle competenze dei quindicenni, pone l’Italia agli ultimi posti; fra i due gruppi si colloca la scuola media”. Messa così, suona come il classico post hoc, ergo propter hoc (prima c’è A, poi B, quindi A ha causato B...). Per la verità in un altro documento dell’associazione si sostiene che la frattura fra primaria e media è dovuta soprattutto a profonde differenze sia nella formazione dei docenti che nell’organizzazione delle cattedre. La scuola media sarebbe quindi un “liceino” in cui i bambini incontrano bruscamente un’eccessiva frammentazione disciplinare insieme a metodologie didattiche lontane dall’operatività che caratterizza il precedente quinquennio. Sono ipotesi che probabilmente contengono una parte di verità. A dire il vero la mia esperienza professionale nella scuola media mi fa vedere una realtà molto frastagliata. Intanto esiste tra i miei colleghi una grande varietà di stili didattici. La maggior parte dei bambini delle prime, poi, tutt’altro che traumatizzati dal cambiamento, fa convivere disinvoltamente l’affetto e la stima per le maestre che ha lasciato con un deciso apprezzamento per l’alternarsi di materie e insegnanti nel corso della mattinata, come ci confermano anche molti genitori (“il mio figliolo è entusiasta”). E visto che c’è una sostanziale convergenza nelle valutazioni con i nostri colleghi della primaria, come spiegare, allora, la flessione nelle indagini internazionali?
Premesso che in realtà nel centro e soprattutto nel nord questo segmento dell’istruzione è più o meno in linea con la media OCSE, mentre il sud va molto peggio, a me pare che stranamente si trascuri nelle analisi un fattore che non sfugge al senso comune: il fatto che in questo periodo ha inizio la prima adolescenza, con i profondi cambiamenti psicologici che comporta e i nuovi, spesso difficili problemi che si pongono ai genitori e agli insegnanti. Non per caso la “luna di miele” del primo anno spesso lascia il posto a rapporti più conflittuali, a cambiamenti negli interessi, nell’umore, nella capacità di concentrazione. Se fosse tutta colpa della didattica, non si spiegherebbe la forte diversità fra femmine e maschi: questi ultimi sono in media più irrequieti, meno maturi e riflessivi, più spesso polemici, mentre le loro compagne dimostrano maggiore impegno, amano di più la lettura e ottengono risultati migliori. Ed è ovviamente in questo segmento del percorso scolastico coincidente con una fase di crisi e di trasformazione che vengono al pettine i nodi di un orientamento pedagogico che negli scorsi decenni ha confuso la fermezza con l’autoritarismo e teorizzato l’esclusiva responsabilità della scuola per ogni insuccesso scolastico. E quanti di quelli che hanno spinto per la promozione garantita recriminano oggi sugli scarsi risultati della scuola media?
Solo da poco si è cominciato a capire che lo sfondo indispensabile di una didattica efficace è un sistema educativo imperniato sui valori del merito e, appunto, della responsabilità, sui doveri non meno che sui diritti, oltre che su una migliore preparazione dei docenti. Una preparazione che deve includere quindi la revisione critica dello stile relazionale negli educatori, in cui alla sensibilità affettiva si affianchi la capacità di individuare e tenere fermi gli atteggiamenti giusti sul piano educativo, anche quando siano emotivamente costosi. I “virus” del buonismo non si debellano dalla mattina alla sera, ma solo con l’esercizio e la verifica dei risultati.
Inoltre, più il contesto sociale apprezza la serietà, il civismo, il valore della cultura, il rispetto delle regole, più gli insegnanti riusciranno a ottenere dagli studenti l’impegno necessario in qualsiasi percorso formativo. Possiamo trascurare tutto questo quando tentiamo di comprendere il ritardo della scuola nel sud?
(Da "Liberal")
Che l'ingresso dei ragazzi nella prima adolescenza sia un fattore di grande importanza per comprendere e affrontare le difficoltà della scuola media e dei suoi docenti, benché finora trascuratissimo, affiora anche in un'intervista del pedagogista Cesare Scurati su "Europa" di ieri.
Nel medesimo Speciale Educazione che “Liberal” dedica questo giovedì alla scuola media si può leggere, oltre a un’intervista allo psichiatra Paolo Crepet, un intervento di Giuseppe Bertagna, che precisa di non voler partecipare “allo stereotipo nazionale che vuole la scuola media «anello debole» della scuola italiana”, analizza i tentativi fatti in passato di risolverne i problemi e tra l’altro stigmatizza la “totale assenza degli standard di apprendimento” a cui dovrebbero riferirsi i voti. Non si capisce però perché questo problema venga indicato come specifico delle medie, dato che gli standard non esistono né prima né dopo. Antonio Piscitelli individua nell’abolizione dell’avviamento e nella creazione della scuola media unica un fattore di debolezza di quest’ultima: forse si sarebbe potuto mantenere il doppio canale, arricchendo l’avviamento professionale di valenze culturali. La tesi può essere discussa senza scandalo, anche perché il dibattito su “classismo” e “scelta precoce” si è spostato negli anni recenti al passaggio fra media e superiori e ha prodotto, con l'innalzamento di due anni dell'obbligo di istruzione, una soluzione poco rispettosa dei diversi talenti e stili di apprendimento (come abbiamo più volte sottolineato). Vedremo i risultati.

1 commento:

francini ha detto...

Il problema di fondo, quando si magnifica questo o quel ciclo di studi o quando si critica quell'altro, e si pretende che le considerazioni poggino su dati "obiettivi", è che in realtà le informazioni relativamente affidabili di cui disponiamo sono quasi inesistenti.

Andando all'osso possiamo restringerci ad una sola fonte dotata di sufficiente affidabilità: per l'appunto il test PISA-OCSE. Di quel test si può criticare il quadro di riferimento concettuale (e ce ne sarebbero svariate ragioni, ma questo aspetto per il momento passa inosservato, e comunque prima o poi bisognerà approfondirlo criticamente), tuttavia riesce difficile negare l'attendibilità e la complessiva affidabilità delle informazioni ricavabili da PISA-OCSE. Per una serie di motivi: accuratezza (rispetto alle altre indagini o prove comparative) dei protocolli di somministrazione e di correzione, accuratezza dell'analisi statistica dei dati e dei controlli di plausibilità (se qualcuno prova a barare la cosa viene evidenziata con quasi certezza), coerenza dei risultati e dei legami di correlazione che vengono riscontrati, coerenza delle serie geografiche e temporali che vengono prodotte, etc. Insomma, pur con gli ovvi margini d'incertezza che caratterizzano un'osservazione statistica campionaria di quelle dimensioni (peraltro volta ad indagare caratteri latenti quali le "competenze" dei quindicenni in alcuni ambiti...), l'indagine PISA si presenta notevolmente robusta e difficilmente attaccabile nei suoi riscontri. Si può discutere del "cosa" e del "perché" l'indagini misuri, ma non del fatto che le misurazioni siano sostanzialmente affidabili, e che tale affidabilità si accrescerà ulteriormente nel tempo, via via che si accumuleranno e s'infittiranno le informazioni disponibili (in proposito ricordo ancora i toni provinciali che accompagnarono i risultati di PISA 2000 e PISA 2003, per lo più tesi a negare l'attendibilità e la valenza dell'indagine, quando già allora era evidente la robustezza statistica della rilevazione).

Detto ciò, è importante rendersi conto che, al momento, quell'indagine è praticamente un unicum. Non disponiamo di nulla di simile che ci descriva la situazione della scuola elementare. La mitizzata indagine PIRLS (3° elementare) parla solo di abilità nella LETTURA (solo lettura, niente matematica, etc...) ed è di ricchezza informativa neppure lontanamente paragonabile al test PISA. Tra l'altro le interpretazioni dei dati sulle abilità di lettura sono varie e neppure univoche (ad esempio: il ruolo dell'asilo, il fatto che non tutte le lingue presentano uguale difficoltà di apprendimento iniziale, a seconda della natura dei segni alfabetici, delle regole di scrittrura e di lettura, e così via).

La verità è che c'è un buco nero. Nella realtà non abbiamo nessuna base seria o solida per affermare quale sia la situazione comparativa nel primo ciclo di scolarità nelle varie nazioni. Il primo e fondamentalmente unico termine di paragone serio è appunto il test PISA (ripeto, con tutte le cautele del caso).

Non è un caso che fino a 5-6 anni fa si continuasse a ripetere che in Italia abbiano uno dei sistemi scolastici migliori al mondo, per poi ricredersi ed assistere allo sgretolamento di ogni confortevole compiacimento di fronte ai dati PISA-OCSE e alla sempre più marcata evidenza dei fatti (quando bastava andare, già 15 anni fa, in giro per altre nazioni europee per accorgersi che anche gli addetti alle pulizie parlavano l'inglese meglio di un italiano laureato e che nelle metropolitane di Parigi o di Berlino o di Stoccolma la quantità di ragazzi chini su voluminosi libri era incomparabilmente superiore a quel che capita di vedere da noi...).

Tutto il "fumus" sulla scuola elementare che sarebbe "una delle migliori del mondo" si basa per lo più su dati di natura economica-quantitativa, spacciati per dati qualitativi (si sa: è un vecchio vizio della mentalità economicista quello di scambiare la quantità per qualità...). Il bello è che, a furia di ripetere concetti in realtà pochissimo ben fondati spacciandoli per solide certezze, si sedimenta il sentimento, il senso comune che di certezze debba trattarsi. Non è più nemmeno importante andare alla fonte di queste certezze. Una notizia, per la sola ragione di essere ripetuta molte volte, diviene "fatto". Stiamo attenti al risveglio però, quando toccherà svegliarsi.