La rivista
“Adò”, edita dall’Associazione “Laboratorio
Adolescenza”, ha posto ad alcuni docenti e una giornalista la domanda : “Servono
ancora gli insegnanti?”. Pubblichiamo qui sotto la risposta di Valerio Vagnoli
del Gruppo di Firenze; le altre possono essere lette direttamente sulla rivista
reperibile sulla nostra pagina facebook o direttamente a questo indirizzo: http://bit.ly/2r4tTq0.
Sono nato e vissuto, per
fortuna o purtroppo (come direbbe Giorgio Gaber), in un villaggio minuscolo
della campagna toscana. Allora – si era negli anni cinquanta – nessuno al mondo
avrebbe potuto pensare che anche quel paesino, attraversato solamente da una
strada bianca e dal suono delle campane di chiese sperse sulle colline, avrebbe
lasciato il posto all’attuale immenso villaggio globale.
Per
quelli della mia generazione fu sufficiente l'esperienza della scuola media, da
raggiungere nella cittadina sede del Comune facendo sette-otto chilometri in
bicicletta o in corriera, a farci rendere conto di quanti limiti, insieme ad
alcune cose belle, segnavano la nostra vita nel villaggio. Così, insieme alla
solidarietà spontanea, ma a volte anche interessata, che caratterizzava i
rapporti tra le famiglie e la nostra stessa vita quotidiana, avremmo lentamente
scoperto, grazie ai libri – soprattutto se si trattava dei classici – e a
qualche illuminato docente, che la nostra vita era dominata dalle
superstizioni, dalla maldicenza e dalle prepotenze di chi manteneva e ostentava
privilegi di casta contro i quali era difficile opporsi, pena l'esclusione dal
convivere sociale che spesso non era convivenza civile. E avremmo scoperto la
grandezza di quei pochissimi che avevano osato opporsi, pagando di persona
prezzi umanamente pesanti, alle meschinità delle idee dominanti di quella
nostra piccola comunità. La quale, tanto per fare un esempio, considerava
ragazze perdute le prime che preferirono il lavoro in fabbrica rispetto alla
solitudine disperata di quello a domicilio o, ancor peggio, di quello dei
campi. E ancora a quei tempi dare alla luce un figlio significava per la donna
il dover “rientrare in santo” prima di poter rimettere piede in chiesa. Se poi
il figlio fosse nato con problemi di qualunque natura, era un'atroce tragedia
per lui e per l'intera famiglia, il più delle volte “costretta” per vergogna a
crescerlo nascondendolo agli altri, per sempre prigioniero tra le mura di casa.
In quegli stessi anni i poderi venivano affidati solo a contadini che avevano
figli maschi, braccia forti per lavorare la terra e garantire la continuità
nella gestione dei poderi (ma anche l’inamovibilità della gerarchia sociale).
Noi, invece, nati nei primi anni '50, avremmo scoperto grazie alla nuova scuola
media unificata che all'ingiustizia della Storia si potevano e si dovevano
trovare spiegazioni e rimedi senza doversi fare scudo di ideologie forti, che
difficilmente forniscono analisi eque e lucide. Molti docenti, soprattutto
quelli della nuova generazione, seppero trovare i loro entusiasmi proprio
grazie a quel mondo nuovo che entrava nelle aule scolastiche: aule prima
riservate solo alle classi sociali privilegiate, mentre noi, i nuovi arrivati,
ci portavamo dietro, insieme alle timidezze, le aspettative di chi entrava in
mondi fino ad allora sconosciuti e forse in grado di mutare i nostri destini.
Ma
pochissimi sarebbero stati i genitori che mandando i figli alla scuola media,
anche perché finalmente costretti a farlo, avrebbero chiesto loro di
impegnarsi, com’è frequente oggi, per diventare chissà che cosa! Quasi sempre
chiedevano ai figli di studiare e di dare ascolto ai docenti per essere domani
persone capaci di pensare con la propria testa, senza rischiare di fare la vita
che era toccata loro, quella di dover ubbidire senza fiatare. Ci raccomandavano
anche di non cedere alle lusinghe della pubblicità sempre più frequente nella
televisione, che andavamo a vedere nell'unica bottega del borgo. A scuola ci
veniva invece chiesto di vederla per poi discutere insieme su cosa, di quanto
veduto, ci entrava nell'anima, ed entrandovi se poteva esserci o meno utile. E
il più prezioso aiuto che, con pazienza, ci veniva dato era che vi sono doveri
per il genere umano imprescindibili, il primo dei quali è la salvaguardia del
proprio pensiero dalle ingegnose e infide ingerenze degli altri. E ogni tanto
accadeva che la televisione ci fosse d'aiuto e ci stimolasse, soprattutto se
guidati dagli insegnanti, anche a misurarci con realtà diverse dalla nostra,
con storie e documenti che ci offrivano nuove conoscenze e nuovi stimoli per
comprendere il mondo e la gente diversa da noi. Questo riuscirono a darci i
nostri docenti che, anche attraverso la storicizzazione delle loro materie, ci
spiegavano quale faticoso ma essenziale esercizio fosse il mantenersi vigili
rispetto ai pifferai magici, quelli che oggi spadroneggiano in rete e domani
chissà dove.
Purtroppo
in questi ultimi decenni la nostra società, grazie anche allo sconsiderato uso
dei nuovi strumenti di comunicazione, è per certi aspetti tornata a fare i
conti con l'ignoranza e la fragilità, anche se in forme nuove. Santoni e
maldicenti, presuntuosi e ciarlatani spesso hanno, proprio grazie a questi
mezzi, un successo da far impallidire quelli del passato. Di fronte a un quadro
del genere, in cui ognuno si sente libero di affermare ciò che vuole e di
affrontare con spudorata ignoranza il mondo intero, non abbiamo quasi altra
risorsa per recuperare i valori della nostra civiltà se non la scuola e in
particolare il lavoro dei suoi bravi docenti. Mai come in questi nostri tempi,
e ancor più in futuro, il loro impegno sarà indispensabile per ritrovare, per
dirla con Leopardi, “il verace saper, l'onesto e il retto / conversar
cittadino”. E perché ciò accada è indispensabile che il ruolo dei docenti torni
a essere centrale. Ma dovranno essere docenti seriamente formati e selezionati,
perché solo i migliori possono garantire un'istruzione degna di questo nome. E
solo così la scuola non penalizza chi non ha in famiglia adeguate risorse
culturali. Occorre poi che sia garantito e insegnato il rispetto delle regole,
per impedire che la società possa cadere nelle mani di quelli che le regole se
le fanno da soli, costringendo tutti gli altri a subirle. A rendere necessario
tutto ciò non c’è solo il declino del nostro sistema scolastico e parallelamente
anche delle nostre istituzioni, ma anche il dover constatare che la vera
cultura dominante dei nostri tempi è, appunto, quella della rete, così
accattivante per i giovani da creare vere e proprie dipendenze. Siamo di fronte
a una rapidissima circolazione di contenuti priva di filtri e non di rado
legata a interessi di carattere commerciale, quando non subdolamente politico.
Di fronte a internet molti giovani hanno un comportamento di piena
acquiescenza, anche per colpa di un orientamento poco esigente impresso alla
scuola da pedagogie sconsiderate, che rinunciando a chiedere a tutti i ragazzi
una solida preparazione, abbassano così le loro difese rispetto ai messaggi da
cui sono raggiunti.
A causa
dell’uso forsennato della rete, si diventa sempre meno pazienti e capaci di
sostenere l’impegno richiesto da una vera formazione. D’altronde ormai da
decenni il governo della scuola non ritiene fondamentale, come avveniva un
tempo, che i nostri ragazzi siano tutti quanti, nessuno escluso, capaci di leggere,
di scrivere bene e di far bene i conti. Le strategie didattiche e formative si
sono progressivamente lasciate andare a un insegnamento in competizione con i
nuovi mezzi di comunicazione, dove tutto deve essere regolato da tempi brevi.
Basterebbe vedere la condizione di abbandono di molte biblioteche scolastiche
per renderci conto di come abbiamo distrutto uno dei cardini della nostra
cultura, cioè la ponderatezza e la costruzione graduale di saperi approfonditi
attraverso lo studio personale e di gruppo, quest'ultimo nella mia esperienza
utilissimo per fare ricerche condivise, discusse e destinate a rimanere
archiviate anche per tutta la vita nella testa di noi ragazzi. Come per tutta
la vita sarebbe rimasto gran parte del nostro sapere imparato a memoria.
Insomma, sempre più il compito della scuola dovrà tornare a essere quello di
formare futuri cittadini dotati di forza critica e di autonomia di pensiero,
proprio come la conoscemmo nei primi anni della scuola media unificata che si
preoccupava, senza sconfinamenti di carattere ideologico, di farci scoprire le
cause e le origini delle cose. Tutto questo è e sarà possibile solo nel
quotidiano rapporto personale con insegnanti in grado di condurci per mano, con
sapienza e fermezza, alla scoperta del mondo che non è solo quello, come a
molti viene fatto credere, che entra nelle nostre case.
Valerio Vagnoli
Pubblicato
su “Adò – Laboratorio Adolescenza” – Vol. 2 – n.3 – 2019
3 commenti:
Condivisibile in toto. Bravissimo☺️
Una dimostrazione palese di come la scuola del passato non si dovesse tutta buttare alle ortiche.
Grazie, professor Vagnoli,
per questa coinvolgente " Storia di Formazione"!
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